«Ho ancora una cosa da dirvi». Al termine dell’incontro, ormai storico, in cui ha riunito gli artisti nella Cappella Sistina (il 23 giugno 2023), Papa Francesco ha voluto trasformare il suo discorso in un gesto di confidenza profonda, passando dalle ragioni dell’intelletto a quelle del cuore. «Prima di salutarvi, ho ancora una cosa da dirvi, che mi sta a cuore». Che cos’era questa cosa che il Papa aveva deliberatamente conservato per la fine del suo intervento? E perché ha voluto sottolineare l’importanza di ciò che stava per dire, rivelando con singolare intensità il suo personale coinvolgimento in questa richiesta? Le sue parole sono eloquenti: «Vorrei chiedervi di non dimenticarvi dei poveri, che sono i preferiti di Cristo, in tutti i modi in cui si è poveri oggi. Anche i poveri hanno bisogno dell’arte e della bellezza. Alcuni sperimentano forme durissime di privazione della vita; per questo, ne hanno più bisogno. Di solito non hanno voce per farsi sentire. Voi potete farvi interpreti del loro grido silenzioso».
Questo appello risulta ancora più potente, perché ispirato da un riferimento biografico centrale e illuminante. Nel ricordare il Conclave che l’ha portato al Soglio di Pietro, Jorge Bergoglio cita spesso l’impatto della frase sussurratagli dal Cardinale brasiliano Cláudio Hummes, al momento dell’elezione. L’amico di lunga data lo abbracciò e gli disse, in modo che solo lui potesse sentire: «Non dimenticarti dei poveri!». Fu questa richiesta, che lo toccò profondamente, a fargli scegliere il nome di Francesco, e, certamente, a determinare il corso che avrebbe preso il suo pontificato.
Ecco perché quella del Papa agli artisti non è una preghiera ben intenzionata e laterale, ma l’espressione di ciò che lui stesso ha vissuto come un punto di svolta.
La filosofa Adela Cortina ha coniato il termine “aporofobia”, associando due parole greche: “áporos”, il povero, l’inerme, e “fobéo”, che significa temere, odiare, rifiutare. Così come “xenofobia” è l’“avversione nei confronti degli stranieri”, l’“aporofobia” è “l’avversione nei confronti dei poveri perché sono poveri”. La pensatrice ha creato questo nuovo termine perché abbiamo bisogno di dare un nome alle cose per riconoscere che esistono e che possono essere affrontate in modo responsabile. Tale esigenza è perfettamente in linea con la diagnosi di Adriano Pedrosa, il curatore generale della LX edizione della Biennale d’Arte, quando denuncia «i rischi e le insidie celati all’interno della lingua». Le lingue devono diventare laboratori di ricerca di senso e di giustizia. Abbiamo, effettivamente, bisogno di rivedere la semantica di molti termini culturali che sono arrivati fin qui, nel presente, come sonnambuli, ma dobbiamo anche trovare parole nuove e raggiungere realtà che sono bandite dalla visibilità dominante. Per ottenere tutto questo, però, non basta un semplice maquillage: c’è bisogno di un cambiamento di fondo. Adela Cortina lo afferma con chiarezza, in una riflessione ampia, che ci costringe a riflettere anche sui dispositivi di circolazione e affermazione dell’arte contemporanea: «Se il successo, il denaro, la fama e l’applauso sono i valori supremi delle nostre società, è praticamente impossibile far sì che le persone trattino tutte le altre su un piede di eguaglianza, riconoscendole come uguali». Come Bergoglio, l’arte contemporanea ha bisogno di un punto di svolta. Una sorta di turning point che l’aiuti a preservare e rafforzare il suo spazio di critica, creazione e libertà, permettendole di comprendere con accresciuta consapevolezza il proprio contributo alla comunità umana nel suo complesso. Rifiutando la condizione esclusiva di «struttura di merce» (Lukács), l’arte contemporanea ha bisogno, per esempio, di riscoprirsi, in forme diverse, come una coraggiosa struttura di reciprocità.
La richiesta di Francesco è che l’arte contemporanea non si sottragga al rischio del dialogo con coloro che «sperimentano forme durissime di privazione della vita», facendosi interprete «del loro grido silenzioso». Il Papa sa bene di cosa sta parlando. Credo che il numero davvero impressionante di visite in carcere già effettuate da Francesco non sia ancora stato adeguatamente valutato come elemento “politico” e teologico del suo pontificato. Francesco è il leader mondiale che presta maggiore attenzione a questi spazi e agli esseri umani che li abitano. Basti pensare che ha visitato i carcerati in carcere 17 volte (12 volte in Italia e 5 all’estero). Questa scelta rappresenta anche un «grido silenzioso» che dobbiamo ascoltare.
Non è affatto strano, perciò, che il Padiglione della Santa Sede abbia individuato come sede il carcere femminile dell’Isola della Giudecca. E qui vorrei esprimere la mia gratitudine alle autorità nazionali e locali, a partire dal Ministero della Giustizia italiano, che hanno immediatamente compreso la portata della proposta della Chiesa e l’hanno resa possibile. C’è tanto da fare in questo campo! Come direbbe George Steiner, si tratta di intraprendere uno «spostamento ermeneutico» che promuova la responsabilità di tutti nel prendersi cura delle popolazioni carcerarie e stimoli esperienze di umanizzazione e speranza. La giustizia è un compito collettivo incompiuto, perché richiede riparazione, ma anche ascolto, ricostruzione della vita, riabilitazione della fiducia, porte che si aprono e non solo porte che si chiudono.
Cosa può fare l’arte contemporanea in questo ambito? L’arte può essere assente dai luoghi del dolore, in cui si elaborano le domande più grandi e più difficili?
È questa la domanda che si sono posti due curatori straordinari, Bruno Racine e Chiara Parisi, invitando un collettivo di artisti ed artiste ad esprimersi al riguardo e a prendere posizione.
E sono tutti e tutte loro, presenti nel nostro Padiglione, ad aver risposto all’appello: Maurizio Cattelan, Bintou Dembelé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sónia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana e Claire Tabouret. Ma non hanno risposto da soli e da sole, ognuno per sé stesso. L’hanno fatto sempre in compagnia delle donne detenute nel carcere veneziano. Perché uno degli aspetti più significativi di questa vicenda è il fatto che sono state queste donne ad offrire ispirazione, affetto e storie agli artisti, e che sono loro, ora, ad interpretare le loro opere per tutta la durata della Biennale, assumendo il ruolo di guide della mostra.
E due cose sono forse più evidenti per tutti noi alla fine di questo processo. Primo: quando il nostro grido viene ascoltato, diventiamo maggiormente capaci di interpretare il grido degli altri. Secondo: il grido di dolore che si ascolta in questi recinti di sofferenza che sono le carceri può diventare la parabola urgente di ogni grido umano. Il grido che noi, nella fretta di tutti i giorni, facciamo fatica ad ascoltare.
Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano