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Il mio sax è pieno di mare
di Helmut Failoni
L a conversazione via Zoom tra l’Italia e la Norvegia con John Surman (1944) — compositore e polistrumentista cult inglese che ha pubblicato il primo disco nel 1969 e il più recente nel marzo di quest’anno — prende il via dalla copertina del nuovo Words Unspoken (Ecm), uscito dopo 6 anni di silenzio. Una fotografia di Christian Vogt: un mare a perdita d’occhio con un gommone rosso e una persona presa di spalle che lo osserva dal ponte di una nave.
L’immagine del mare e dell’acqua compaiono spesso sulle sue copertine. E anche il suo suono in fondo rimanda spesso a quello dell’acqua.
«Sono nato e ho vissuto la maggior parte della vita vicino al mare. Non saprei spiegare razionalmente la mia attrazione per l’acqua. Posso dire invece con sicurezza di non amare la giungla urbana, non potrei viverci».
«Words Unspoken» (Parole non dette): significato?
«È una domanda a trabocchetto (ride, ndr)… Scherzo. Direi Words Unspoken forse perché parliamo troppo e vogliamo dare una definizione a tutto. Però io suono e basta: non sono un teorico ma una persona pratica».
Com’è nato questo gruppo, strumentalmente atipico, con fiati, batteria, vibrafono e chitarra?
«La maggior parte delle mie scelte sono legate ai musicisti più che agli strumenti. Era il compleanno di Karin Krog (cantante e compagna di Surman, ndr) e c’era un concerto in suo onore. Rob Luft e Thomas Strønen suonavano: li ho ascoltati e mi sono detto che insieme funzionavano davvero. Avevano un suono collettivo bello, dialogante. Si sapevano muovere su più piani musicali, come Rob Waring, con il quale suono da anni».
Lei ha iniziato cantando in una chiesa…
«Esatto. E da quando ho smesso di cantare, ho sempre provato a farlo con gli strumenti che suono».
Quando è passato al clarinetto e ai sassofoni?
«Da bambino cantavo da solista nel registro di soprano. A quattordici anni ebbi il cambio di voce, la muta vocale, e l’anno dopo un giorno mi capitò di vedere in un negozio di seconda mano un clarinetto. Lo comprai e iniziai a suonare dietro i brani trasmessi alla radio».
Che musica era?
«Dixieland e blues. Il clarinetto ha sostituito la voce».
Lei ha una cura maniacale per il suono.
«A Londra ho avuto un bravissimo maestro di clarinetto, che mi ha insegnato principalmente come lavorare sul suono, come curarlo in ogni sua sfumatura».
Tra i sassofoni ha scelto il baritono, il meno comune, ed è riuscito a dargli una sonorità nuova.
«La maggior parte delle persone sceglie il tenore o il contralto. Il baritono è stato un caso. L’ho visto in un negozio: non sapevo esattamente cosa fosse e come funzionasse ma mi piacque subito tantissimo».
Lei è noto anche per il suo lavoro pioneristico con la tecnica della sovraincisione, con dischi storici registrati in solo come «Westering Home» (1972), «Upon Reflections» (1979), «A Biography Of The Rev. Absalom Dawe» (1995), giusto per citarne alcuni, nei quali lei suona più strumenti. Ce ne parla?
«La mia era curiosità. Quando ho iniziato, le tecniche di registrazione erano in fase iniziale. Ne ero attratto, volevo vedere cosa succedeva se registravo i miei strumenti su più tracce e poi assemblavo il tutto. È anche la mia regola di vita: fare per poi vedere cosa accade».
In quei dischi lei usa a volte anche il sintetizzatore che ripete i suoni, a loop, in modo minimalista…
«Quando iniziai a fare cose di quel genere, in realtà non sapevo nemmeno che cosa fosse il minimalismo. I sintetizzatori che usavo producevano dei loop in maniera automatica, non per mia scelta».
Nei dischi solitari l’approccio è totalmente diverso.
«È un po’ come dipingere su più tele contemporaneamente. C’è un’idea di composizione istantanea».
Com’era l’ambiente negli anni dei suoi esordi?
«Se volevi suonare jazz, dovevi misurarti con un mondo di amatori. Non esistevano manager, agenzie e sovvenzioni statali. Il jazz lo imparavamo dai dischi: io frequentavo un negozio che mi ha schiuso un universo».
Cos’era la libertà in musica quando lei iniziò?
«In un brano non eri tenuto a suonare un determinato accordo, com’era scritto, a tutti i costi. Non dovevi nemmeno saper suonare gli standard. Let freedom ring (Lascia risuonare la libertà, ndr) era il nostro motto. Suonavamo liberi. Era energia pura. Del momento».
Ogni dieci anni circa qualcuno dice che il jazz è morto. Lei cosa ne pensa?
«Ai miei tempi girava un libro sul jazz, Shining Trumpets (1946, ndr) di Rudi Blesh, in cui l’autore sosteneva che il sassofono fosse uno strumento terribile per il jazz. Poi è arrivato il bebop e si diceva che il jazz fosse morto, perché aveva perso lo swing. E così con il free e avanti fino a oggi. Invece il jazz evolverà sempre».
Fra tutte le sue collaborazioni, qualcuna del cuore?
«La prossima… (ride, ndr). Non posso rispondere, sono troppe. Ci sono musicisti che fanno parte della mia vita, John Taylor, John Marshall, Chris Laurence. Jack DeJohnette anche. Potrei dire pure che amo suonare con Nelson Ayres ma sta in Brasile e quindi è difficile organizzarsi. Poi Gil Evans: mi sentivo a casa nella sua big band. Eravamo tutti diversi e la sua grande capacità fu proprio quella di saper riunire sullo stesso palco nature umane e musicali opposte, amalgamandole fra di loro».
Durante gli anni di studio invece chi sono stati coloro che hanno cambiato il suo approccio?
«Harry Carney, il vero suono del sassofono baritono. Lui e tutta la musica che gli girava intorno, quindi Duke Ellington e Billy Strayhorn. E poi Sonny Rollins. Un momento… ci vanno messi anche Charles Mingus e John Coltrane. Coltrane in fondo ha influenzato tutti. Se mi si ascoltava suonare il sax soprano agli inizi, dopo i miei assoli, alzavo gli occhi al cielo e dicevo tra me e me: “Scusa John… Stavo provando, come tutti, a fare qualcosa per imitarti ma è impossibile suonare come te…”».
Lei ha lavorato anche con la danza, con Carolyn Carlson, con Teri Weikel… Come concepiva la musica da inserire in uno spazio in movimento?
«Ho imparato molto sull’interazione fra spazio e suono. Improvvisavo sui movimenti dei danzatori, sulle espressioni di quei volti, che a seconda delle coreografie, passavano paura, gioia, dolore, estasi. Amavo i contrasti fra coreografie lente e musica veloce e viceversa».
Jan Garbarek e lei siete i due sassofonisti simbolo del cosiddetto jazz nordico. Le chiediamo un ricordo.
«Tanti anni fa mandai a Jan un biglietto, dicendogli che avremmo potuto fare qualcosa insieme. Lui rispose: “Sì, certo, ma cosa? Io ho la mia musica e tu hai la tua”».
Lei cosa rispose?
«Che forse aveva ragione ma che nel frattempo io mi ero pure dimenticato l’idea che avevo avuto…». Ride.
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