Secondo l’Irpet nel 2022 un avviamento su due all’occupazione femminile è stato a tempo ridotto. La Cgil: “ La conseguenza? Salari e pensioni bassi”
diAzzurra GiorgiUn lavoro a orario ridotto, che si traduce anche in minor retribuzione e contributi. Per le donne toscane l’ingresso nel mercato del lavoro è perlopiù part- time. Nel 2022, in base ai dati Irpet, quasi un avviamento su 2 è stato così. Un dato per l’Inps addirittura più alto: 6 su 10. Non è una novità. Succede, da anni, anche nel resto d’Italia, ma sottolinea quale sia il modello di accesso prioritario delle donne nel mercato del lavoro. Per gli uomini, gli avviamenti a tempo ridotto si riducono al 26%, e in Regione tra occupate e occuparti part- time c’è un distacco di 20 punti. Così una tipologia di contratto nata come possibile risorsa, mirata alla promozione dell’occupazione femminile, è diventata una complicazione, spesso imposta. « Purtroppo si continua a considerare il lavoro delle donne come aggiuntivo o residuale rispetto all’entrata economica della famiglia. E spesso c’è l’illusione di iniziare così ma la trasformazione in tempo pieno non avviene quasi mai. Lo stesso vale quando da un full time si riducono le ore: è difficilissimo tornare indietro» spiega Barbara Orlandi, responsabile del coordinamento donne della Cgil.
Cosa comporta a lungo andare? Retribuzioni più basse, meno contributi, futura pensione più bassa, ad esempio, che si inseriscono in un contesto in cui le donne sono concentrate in settori in cui i redditi sono già più bassi (come specificato in un report Irpet del 2021) e che, considerando varie professioni ( in uffici, servizi, istruzione, salute, industria), le donne percepiscono, dice l’Irpet, « mediamente un reddito che va dal -35% al -6% rispetto agli uomini», con un divario che si assottiglia nei comparti a maggioranza maschile (probabilmente, spiega il report, perché vi è occupata chi « alta istruzione o competenze tali da favorirne un’affermazione professionale»).
«È un quadro devastante rispetto all’autonomia economica che le donne devono e possono avere continua Orlandi -. Se non c’è autonomia il resto della vita è equilibrata su una forma di ricatto economico che ti impone di accettare anche situazioni insostenibili. Prendiamo i percorsi di violenza, come se ne esce? Con una buona occupazione, che garantisca autonomia e indipendenza». Che però, appunto, non sempre c’è, spesso anche in modo involontario. Ovvero con un tempo ridotto che non è stato scelto, ma imposto, per mancanza di proposte a tempo pieno. Non solo. Secondo lo stesso studioIrpet, le donne con part- time volontario o inattive, nel 75% dei casi lo sono per « dedicare tempo alla cura dei figli » . E questo perché il lavoro di cura è ancora, in larghissima parte, in capo alle donne, uno squilibrio continuato anche durante il lockdown, anche quando, riporta l’Irpet, la donna lavorava fuori casa e il padre no. « In Italia la maternità è concepita come una disgrazia, e te la fanno vivere così. Quando arriva significa interruzione nel percorso di lavoro, c’è un prima e un dopo. Spesso di demansionamento. E capita che venga accettato un part- time pur di non rischiare di perdere il posto continua Orlandi -. C’è l’assoluta convinzione che la tua vita cambierà, e che per moltissimo tempo sarà calibrata su pediatra, ecc (secondo l’Irpet, in caso di emergenza che richiede lo stare a casa coi figli, nel 40% dei casi è la madre a farlo, nel 5% il padre, il 31% si alterna, ndr). È un approccio per cui alla fine le donne si convincono che il part- time sia una soluzione, ma le ingabbia in condizioni di povertà » . Come fare, quindi? « Servono congedi di paternità e maternità equiparati: 6 mesi obbligatori per entrambi, allora qualcosa cambierebbe – dice Orlandi -. E poi una formazione seria, una programmazione didattica con ore dedicatealla cultura del rispetto, alla condivisione dei ruoli. Esperienze virtuose ci sono, la Regione ha finanziato dei corsi ma ad accesso volontario, ci va personale già sensibilizzato. E poi, ovviamente, serve un servizio pubblico uguale per tutti». Asili nido, dopo scuola pubblici « anche perché, se mandi in pensione a 67-68 anni, i nonni lavoreranno, e anche l’aiuto familiare salterà – conclude Orlandi -. A quel punto una donna lavora e spende tutto in baby sitter? No, finirà che se lo guarderà da sola».