La sinistra riscopra la passione
14 Luglio 2024Costruendo l’Arcadia del futuro
14 Luglio 2024
Antonio Carioti
Il gruppo liberale è quello che ha perso più seggi nelle elezioni europee. E da più parti si criticano le politiche dette «neoliberali», il cui esordio viene identificato con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Seguendo quegli esempi, ha sostenuto sul «manifesto» l’ex direttore della rivista «il Mulino» Mario Ricciardi, i liberali si sono ridotti a «garanti del potere economico». Abbiamo chiamato a confrontarsi con lo stesso Ricciardi due studiosi di area liberale: Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, e Gaetano Pecora, autore di un recente libro su Bertrand Russell.
ALBERTO MINGARDI — Reagan non è più al potere dal 1989, Thatcher dal 1990. Il mio giudizio su di essi è molto positivo, ma non si può pensare che la loro influenza condizioni il mondo di oggi. In Gran Bretagna sono appena finiti 14 anni di governo conservatore nei quali non è stato fatto granché di thatcheriano, a parte la privatizzazione delle poste. Semmai è stata smontata la liberalizzazione dell’energia elettrica voluta dalla Lady di ferro. Negli Usa l’ultima presidenza di spirito vagamente reaganiano è stata quella di George W. Bush, che però sarà ricordato per la generosità con cui si prestò a salvare, a spese del contribuente, il sistema finanziario.
Nessuna egemonia neoliberale?
ALBERTO MINGARDI — Negli ultimi trent’anni la spesa pubblica in percentuale sul Pil, compresa quella per il welfare che si dice sia stata bistrattata, è aumentata in tutto l’Occidente. Negli ultimi cinque anni poi, anche a causa della pandemia, è esplosa. L’egemonia neoliberale non si vede proprio. Se guardiamo agli indici di libertà economica troviamo ai primi posti i Paesi scandinavi, che non hanno avuto né Thatcher né Reagan.
Ma allora che cos’è accaduto in questi anni?
ALBERTO MINGARDI — Si è sviluppata un’economia globale molto più integrata che nel passato, con benefici evidenti. Negli anni Ottanta il 40% della popolazione mondiale viveva sotto la soglia di povertà, oggi siamo scesi al 10% e nel mentre la popolazione mondiale è aumentata di 3 miliardi di persone. Conta in parte la politica ma soprattutto altro: il progresso tecnologico, l’innovazione finanziaria, la modernizzazione dei trasporti.
I partiti liberali hanno fallito?
ALBERTO MINGARDI — Spesso sono tali solo di nome. I Lib Dem sono il partito più dirigista d’Inghilterra, Emmanuel Macron è tutto fuorché liberista. Su questo Ricciardi non ha torto: i partiti liberali rappresentano la visione delle classi dirigenti, che comprende la difesa di monopoli e vincoli alla libertà economica, e tanti sussidi, giustificati con le migliori intenzioni, a consumi elitari. Noi in Italia sussidiamo non solo l’auto elettrica, ma anche il dispositivo da portare a casa per ricaricarla, roba da ricchi. Il neoprotezionismo, invocato da quelle stesse classi dirigenti, colpirà i meno abbienti. Adesso l’Ue, per dare uno schiaffo alla Cina, pensa di eliminare le esenzioni dai dazi per prodotti di valore inferiore a 150 euro. Ma chi pagherà di più beni come un paio di jeans o un orologio di plastica, se non persone a basso reddito?
GAETANO PECORA — Ammesso che le forze liberali abbiano subìto uno smottamento a destra, rimangono da registrare diverse eccezioni. Intanto la «terza via» di Tony Blair che nel periodo in cui governò il Regno Unito, dal 1997 al 2007, certo non rinnegò le privatizzazioni della Thatcher, eppure aumentò la spesa per l’istruzione dell’83 per cento e quella per la sanità da 64 a 136 miliardi di sterline. Poi, ancora più significativa, la vicenda dei Lib Dem britannici, i quali quando furono guidati da Charles Kennedy (dal 1999 al 2006), si situarono alla sinistra dello spettro politico britannico, proponendo una tassazione fortemente progressiva, l’università gratuita, tutele per il mondo Lgbtq+, la depenalizzazione della cannabis. E proprio su queste posizioni, il partito fu coronato dal migliore risultato elettorale di tutta la sua storia: il 23 per cento nel 2005. Infine il Canada, dove il premier liberale Justin Trudeau, oltre a una politica per i diritti civili, ha avviato un ciclopico piano di interventi infrastrutturali. Insomma, Ricciardi ha presentato come liscio ed omogeneo un fenomeno multiforme, variopinto, seghettato di rientranze e di sporgenze.
MARIO RICCIARDI — Il mio era un commento per «il manifesto»: un panorama completo del liberalismo avrebbe richiesto molte più sfumature. Né l’oggetto della mia critica era primariamente il liberismo economico, ma il neoliberalismo a cui hanno aderito diverse forze politiche. Questa posizione non si riduce alle privatizzazioni, è più pragmatica. C’è una fase ascendente, con Thatcher e Reagan, in cui le privatizzazioni sono in primo piano, ma ciò avviene perché si partiva dal consenso socialdemocratico. Nel Regno Unito anche i conservatori erano per il welfare: la prima battaglia Thatcher la vince nel suo partito contro i wets, quelli che avevano gli occhi umidi per la compassione verso i poveri. Oggi però la posizione neoliberale non insiste tanto sul libero mercato. Piuttosto tende a costruire una «società di mercato»: quando si indeboliscono le infrastrutture pubbliche, quando s’introducono logiche di competizione che diventano distruttive, per esempio nel campo dell’istruzione, quando si difendono gli interessi delle imprese rispetto alle tutele sociali, siamo di fronte ai tratti costitutivi delle politiche neoliberali.
È improprio parlare di tirannia del mercato?
MARIO RICCIARDI — Non esiste il mercato in astratto: esistono tanti mercati, tutti disegnati da regole. E la specificità delle politiche neoliberali sta nel definire norme che subordinano gli interessi delle classi meno avvantaggiate a quelli delle aziende.
Come si afferma il credo neoliberale?
MARIO RICCIARDI — Nasce nei settori della destra americana ostili all’aumento dei poteri dello Stato federale che si verifica in coincidenza con le lotte per i diritti civili sotto le presidenze di John Kennedy e di Lyndon Johnson. In quella fase alcuni ambienti imprenditoriali si mobilitano per promuovere interventi non solo a favore del mercato, ma anche per l’autonomia degli Stati rispetto al governo di Washington, contro l’istruzione e la sanità pubbliche. Sullo sfondo di queste battaglie c’è la spinta che Johnson ha impresso per la tutela dei diritti civili e per la redistribuzione della ricchezza.
È più pericoloso per i liberali il nazionalismo anti-immigrati della destra o l’egualitarismo della sinistra? Meglio Giorgia Meloni o Elly Schlein?
ALBERTO MINGARDI — Mi sembra, quella di Ricciardi, una definizione di neoliberalismo un po’ troppo ampia per aiutarci a navigare la politica degli ultimi trent’anni… Il problema oggi per i princìpi liberali è la politica dell’identità. Il liberalismo assume l’individuo come misura di tutte le cose, mentre la politica dell’identità ragiona per gruppi. A destra c’è quella grande tribù che è la nazione; a sinistra per esempio la comunità Lgbtq+, e non il singolo con le sue scelte. La politica dell’identità cambia il discorso pubblico. Una volta si trattava di dimostrare che l’avversario aveva torto e cercare di convincerlo. Ora invece la risposta agli argomenti altrui è che rappresentano un’offesa per la mia identità. E se dico che la tua posizione mi offende, non puoi fare altro che chiedermi scusa: la discussione diventa impossibile.
Ma il dilemma tra Meloni e Schlein?
ALBERTO MINGARDI — Preferisco la destra, perché è meno costruttivista: vuole difendere l’esistente e non ha l’ambizione di ridisegnare la società. In Italia poi il governo Meloni, al di là di altre iniziative, scommette tutto su tre grosse riforme — il premierato, l’autonomia differenziata e la separazione delle carriere nella magistratura — che sono da tempo nell’agenda di chi immagina un’evoluzione del Paese in senso più liberale.
GAETANO PECORA — Consentitemi di trattenermi al di qua della politica italiana e rimanere sospeso al gancio dei princìpi liberali, rispetto ai quali le politiche anti-immigrati e quelle egualitarie, se pure per diverse ragioni, riescono egualmente perniciose. E infatti, se si dice no ai migranti, se si adotta un atteggiamento xenofobo, si colpisce di nera censura l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, là dove viene sancito che «ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio». Si cancella questa libertà e si tornerà alla servitù della gleba. Quanto all’egualitarismo, io non so se quella della sinistra sia una politica egualitaria. Ma se lo fosse sarebbe molto preoccupante, perché intesa nell’accezione propria, «egualitaria» è la politica che promuove l’eguaglianza di tutti in tutto (donde il famigerato slogan «uno vale uno»).
Da dove deriva la preoccupazione?
GAETANO PECORA — Dal fatto che, per perseguire una politica rigorosamente egualitaria, vanno scompigliate le dinamiche del mercato e della proprietà privata le quali, ancorché regolamentate, per loro natura aumentano le disparità. Volete eliminare tutte le differenze? Radete al suolo il mercato e cancellate la proprietà. Solo che così avrete annichilito la condizione necessaria delle libertà individuali. E perché? Perché quando i reggitori dello Stato concentrano nelle loro mani tutte le risorse economiche, i singoli, non avendo del proprio di che vivere, patiranno un tremendo ricatto: non obbedite? Non mangerete. E dunque: o il pane insieme con l’obbedienza; o la fame insieme con il dissenso.
E l’alternativa tra Meloni e Schlein?
GAETANO PECORA — Se proprio devo scegliere, opto per la sinistra, perché la sua politica non mi sembra egualitaria nel senso «dottrinario» del termine.
MARIO RICCIARDI — Io non sono a favore di visioni tribali dell’identità e per questo tra Meloni e Schlein scelgo la leader del Pd, il che non vuol dire che sia d’accordo su tutto con lei. Quanto all’egualitarismo, per me consiste nella garanzia paritaria delle libertà fondamentali, integrata da misure che assicurino il pieno godimento dei diritti sociali. Non si tratta di rendere tutti uguali in tutto, ma di fare in modo che gli aspetti salienti delle nostre personalità trovino riconoscimento e tutela. Quanto alla proprietà, il cittadino deve avere la possibilità di acquisirla, ma occorre regolamentarla in base alle esigenze generali di equità. Non si tratta di immaginare misure espropriatrici, ma un’imposizione fiscale che permetta di organizzare servizi sociali decenti.
E il nodo dell’identità?
MARIO RICCIARDI — Nel mondo reale le persone non si presentano in una forma disincarnata, ma vivono all’interno di varie comunità, compresa quella nazionale. Non c’è una contrapposizione netta tra identità e libertà. Si tratta di evitare il tribalismo, che racchiude le persone in una sola identità. Ma la sinistra non è contro il patriottismo. E le rivendicazioni Lgbtq+ non nascono affatto come identitarie, ma come richieste di riconoscimento di diritti individuali nel campo della sessualità. Cambiare sesso significa mutare identità, ma come affermazione di una scelta da parte di persone desiderose di plasmare la propria vita. Quanto al divieto di toccare certi temi, non è una questione di destra e sinistra. L’impoverimento della cultura della discussione è responsabilità dell’una come dell’altra. Per esempio da destra negli Stati Uniti sono stati impediti dibattiti pubblici sulla Palestina. Si tratta di una caratteristica illiberale e tendenzialmente autoritaria delle nostre democrazie.
ALBERTO MINGARDI — Non c’è dubbio che le rivendicazioni legate a diritti individuali e libertà sessuali nascano nel solco dell’individualismo. Però ogni rivendicazione, nel momento in cui serve a fare politica, può avere una torsione tribale e l’istanza individuale viene spesso affogata nelle ragioni dell’appartenenza. Da questo punto di vista i «diritti civili» servono spesso per invocare privilegi e censura, più che per affermare l’autonomia del singolo. Il liberalismo tende a pensare che le persone abbiano identità multiple e per questo è indigesto a chi crede che l’identità debba essere una sola.
Il dibattito pubblico ne esce mutilato?
ALBERTO MINGARDI — Il liberalismo considera le persone come adulti responsabili. Invece nelle nostre società c’è una fortissima tendenza all’infantilizzazione. L’ingresso nell’età adulta viene sempre più ritardato. Oggi il dibattito, anche nelle università, è concepito sempre più in termini di protezione di questi «eterni minorenni» da messaggi ritenuti offensivi…
Approfondiamo il tema dell’immigrazione.
ALBERTO MINGARDI — Poche cose sono più liberali del diritto di un individuo di provare a migliorare la sua situazione anche al prezzo di lasciare tutto ciò che gli è caro. Il che è molto costoso, anzitutto psicologicamente, tant’è che i migranti sono pochi: la quota della popolazione mondiale che vive per più di sei mesi da residente in un Paese diverso da quello in cui è nata è il 3 per cento. I migranti non cercano pannicelli caldi ma occasioni. Hanno uno spirito «imprenditoriale». Le persone di spirito imprenditoriale sono il lievito della società libera, ma sono poche anche loro. Quella grande società libera (e complicata, certo) che era l’America della frontiera si reggeva su questo spirito. E quel Paese venne costruito essenzialmente da migranti.
Eppure assistiamo a forti fenomeni di rigetto.
ALBERTO MINGARDI — Servirebbe un discorso razionale sull’immigrazione, che si basi su dati e non sulla potenza dell’aneddoto impressionante, che prevale sempre nell’opinione pubblica.
Ma perché il problema è così sentito?
ALBERTO MINGARDI — Dipende molto dalle modalità di racconto. A fronte di un caso di violenza, quanti ce ne sono di convivenza positiva? Il problema non è l’immigrazione in sé, ma la scarsa capacità degli Stati di offrire in modo decoroso i due beni pubblici su cui i flussi migratori hanno un impatto più forte: la sicurezza e l’istruzione. Ci sono zone del nostro Paese in cui lo Stato non assicura l’ordine pubblico. E le difficoltà derivanti dall’avere in classe alunni che non conoscono l’italiano segnalano che le scuole funzionano male. Puntare il dito contro l’immigrazione è comodo: si guarda al sintomo e non alla malattia. Formulare idee per migliorare l’erogazione dei servizi è difficile. Dare la colpa ai nuovi arrivati è ben più facile e per giunta premiante sul piano del consenso. Un’ottima scorciatoia per i politici.
GAETANO PECORA — La libertà di cambiare Paese non si discute; però va vigilata e circondata da cautele. E una la voglio indicare: supponiamo che un migrante ci dica che in nome di quanto gli comanda il suo Dio, domani procederà a infibulare la figlia. Noi cosa gli risponderemmo? Nulla. Gli manderemmo la polizia a casa. E però: se quello stesso migrante intendesse propagandare l’infibulazione, noi come la metteremmo? Per il liberal-progressista potrebbe farlo perché si tratta pur sempre di un’opinione, la quale, finché rimane tale, ha qualcosa di aereo che la sottrae alla stretta delle manette.
Tutti i liberali sarebbero d’accordo?
GAETANO PECORA — No. Per esempio uno degli autori più amati dai liberisti come Mingardi, Friedrich von Hayek, proprio su questo punto è inciampato in un equivoco pericoloso quando ha affermato: «Ciò che rende un individuo membro di una società, e gli dà dei diritti, è il fatto di aderire alle sue norme. Opinioni completamente contrarie possono dargli diritti in altre società, ma non nella nostra». Non è così. Non è circoscrivendo i diritti alle sole opinioni «amiche» che si allestisce una società libera.
I liberali sono divisi?
GAETANO PECORA — Sicuramente. Pure, alcune verità ci sono (poche, magari) ma dalle quali il liberale non può prescindere. Una di queste l’ha scolpita José Ortega y Gasset quando ha affermato che il liberalismo «è la suprema generosità», perché «proclama la decisione di convivere con il nemico, e per di più, con il nemico debole». Convivere perché? Perché l’altro,compreso finanche il nemico, stimola le nostre forze e dunque ci è indispensabile se davvero vogliamo risparmiarci l’atonia morale e l’anchilosi mentale. Certo, lì per lì, l’altro genera diffidenza e il nemico suscita paura, ma il liberalismo è appunto il tentativo di frenare queste spinte del sangue filtrandole con la ragionevolezza.
MARIO RICCIARDI — Dissento da Mingardi quando dice che la società americana di fine Ottocento è stata la più liberale della storia. Era così a meno che non si avesse la pelle nera, perché in quegli anni nel Sud viene costruito un sistema di segregazione razziale spaventoso. Detto questo, il diritto di andare a cercare il futuro altrove si trova già in Immanuel Kant. Ma il problema dell’immigrazione è stato cavalcato da una stampa e da una politica in cerca di nemici: quale minaccia più evidente di qualcuno che viene da fuori, parla un’altra lingua, ha la pelle di un colore diverso? Così la destra punta su questo tema, gonfiandone la portata per spaventare gli elettori.
I problemi sono meno rilevanti di quanto appaia?
MARIO RICCIARDI — La libertà di migrare deve essere regolata, ma la vera sfida riguarda la convivenza. Occorre un sistema d’istruzione adeguatamente finanziato, che deve puntare a socializzare gli alunni, abituandoli ad aprirsi verso culture diverse. Oggi invece va di moda valutare le capacità imprenditoriali delle persone: sarà vero che molti migranti sono ben dotati sotto questo profilo, ma al bambino bisogna dare una formazione che funga soprattutto da ingresso in un patto di cittadinanza. Il guaio è che noi vogliamo immigrati pienamente socializzati, ma ci rifiutiamo di investire le risorse necessarie e di valutare l’impatto della spesa a lungo termine. Se i programmi guardano solo a un orizzonte di due o tre anni, non si va da nessuna parte. Se James Baldwin, nato povero in un quartiere nero, divenne un grande scrittore, fu perché trovò insegnanti che investirono tempo ed energie per aiutarlo a sviluppare il suo talento.
Oggi sarebbe più difficile?
MARIO RICCIARDI — Di fatto simili comportamenti sono scoraggiati. Se stai a valutare l’impatto di ogni spicciolo che investi, non puoi realizzare politiche di vera accoglienza. Vale anche per la religione. Esiste il fondamentalismo nel cristianesimo quanto nell’islam e nell’ebraismo, ma non è inevitabile che queste fedi si mostrino intolleranti. Bisogna però creare le condizioni di un dialogo interreligioso, adoperarsi perché le persone imparino a discutere, rispettando le opinioni altrui, ma senza fare sconti se esistono motivi di dissenso.
ALBERTO MINGARDI — Per carità, la nostra burocrazia riesce a distorcere qualsiasi buona idea, inclusa la valutazione. Ma resta necessario dotarsi di strumenti conoscitivi per comprendere i problemi del sistema educativo. Altrimenti, come facciamo a sapere di che parliamo? Serviranno pure più risorse, ma va cambiata la struttura degli incentivi. Non si può andare avanti basandosi solo sul senso del dovere degli insegnanti.
MARIO RICCIARDI — A me va bene che nella scuola si introducano misure premiali, ma non con un simultaneo restringimento dei finanziamenti che crea una gara tra disperati per accaparrarsi le poche risorse rimaste.
ALBERTO MINGARDI — In Italia c’è sempre stato un blocco fortissimo contro l’introduzione di premi al merito. Se ne è parlato tanto, ma non lo si è mai fatto.
MARIO RICCIARDI — C’è stato però anche un modo di presentare quei provvedimenti che suscitava giustamente preoccupazioni.
C’è davvero un conflitto insanabile tra democrazie occidentali e autocrazie, come dicono molti liberali?
ALBERTO MINGARDI — Trovo triste che amici liberali auspichino quasi con entusiasmo il ritorno di un mondo diviso in blocchi. Dietro c’è una delusione: l’integrazione dei mercati non ha portato a un’occidentalizzazione generalizzata. Si pensava che, arricchendosi, cinesi, indiani, africani avrebbero finito per assomigliarci. E in effetti tutti loro desiderano l’elettricità, il riscaldamento, una bici o un’auto. Ma ciò non sempre si traduce in una domanda di istituzioni liberali, perché operano fattori in senso opposto, culturali e politici.
Che fare allora?
ALBERTO MINGARDI — Non possiamo vivere la diversità politica del pianeta come un tradimento, e non come la prova che si può coesistere e commerciare senza per forza assomigliarsi. Un mondo più chiuso è anche più povero. Sessant’anni di embargo a Cuba dimostrano che i dazi creano fame, ma non fame di democrazia. «Aiutarli a casa loro», poi, che significa se non commerciare con loro? Si dice che i liberali credono che il mondo si muova soprattutto sulla base degli interessi. Ma in politica internazionale spesso diventano tifosi. Anche chi ha a cuore lo Stato d’Israele dovrebbe riconoscere che la sua risposta al terribile pogrom del 7 ottobre è stata un altro massacro. Essere lontani dal teatro degli scontri dovrebbe concederci la lucidità della distanza.
GAETANO PECORA — È vero o no che il mondo ripullula di tiranni sanguinari? Posto che sia vero e che le democrazie liberali siano circondate da regimi ostili, c’è il rischio di rinfocolare gli istinti bellicosi? Certamente sì. Però se guardo al passato vedo che anche quando il pianeta era diviso in blocchi contrapposti si riuscì a trovare un equilibrio, precario quanto si vuole, ma sempre di equilibrio si trattava. Se è successo una volta, perché non potrebbe succedere di nuovo? Non sto dicendo che tutto ciò sia un bene. Dico che non necessariamente la contrapposizione deve deflagrare in belligeranza.
E il caso Gaza?
GAETANO PECORA — Non c’è dubbio che Israele, dopo gli atti abominevoli che ha patito, si sia abbandonato a crimini di guerra, simili a quelli della Russia in Ucraina. Però Israele è una democrazia liberale, che riconosce libertà e diritti. Dunque qui si predica bene e razzola male. Invece lì, a Mosca, si razzola come si predica. Da una parte ci sono gli abomini nonostante le regole del liberalismo; dall’altra ci sono le brutture come conseguenza dell’antiliberalismo. E questo fa la differenza.
MARIO RICCIARDI — Il liberalismo non c’entra con la Nato, che è un’alleanza militare. Identificare l’uno e l’altra è un segnale di grave debolezza da parte di una cultura liberale a corto di argomenti e sulla difensiva anche in casa propria. Non dimentichiamo che il problema più grave viene dagli Stati Uniti, dove Donald Trump ha ottime possibilità di ritornare alla Casa Bianca. L’idea che la soluzione sia ravvivare lo spirito della guerra fredda non è solo ingenua, è folle. Invece ci vogliono nervi saldi.
Anche rispetto al 7 ottobre?
MARIO RICCIARDI — L’attacco a civili inermi è sempre inaccettabile, ma la reazione è stata sproporzionata, con violazioni massicce dei diritti umani. Se esse integrino un caso di genocidio, lo deciderà la Corte internazionale, ma è indiscutibile che a Gaza c’è una situazione gravissima. E il fatto che molti in Occidente girino la testa dall’altra parte potremmo anche pagarlo caro. Trasmettere un senso d’indifferenza per la distruzione di vite umane è quanto di peggio si possa fare quando si vuole rivendicare un’autorità etica. Sono comportamenti stupidi oltre che immorali.
Israele però è una società libera.
MARIO RICCIARDI — Sicuramente è uno Stato democratico. Ho dei dubbi però sulla sua natura liberale, che mi vengono peraltro proprio da voci israeliane che, da prima del 7 ottobre, segnalano una pericolosa deriva tribale. Perciò mi pare dannosa la solidarietà cieca con lo Stato ebraico, sul quale invece in passato gli Stati Uniti hanno saputo esercitare una funzione moderatrice.
E il caso dell’Ucraina?
MARIO RICCIARDI — Non sono un pacifista, ritengo che in certi casi occorra difendersi. Credo che fosse opportuno sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina aggredita. Ma penso anche che si debba ragionare sul piano strategico, come molti stanno facendo, per la ricerca di una soluzione di pace. Ciò fa a pugni con l’idea che sia in corso una lotta tra il bene e il male, che non ammette compromessi. È giusto contrastare la Russia, ma non si può pensare di imporle una resa incondizionata.
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