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Una ricerca condotta su 200mila persone in 22 Paesi mostra che ovunque, a prescindere dalla ricchezza, le nuove generazioni vivono problemi esistenziali, tra crisi di senso e assenza di comunità
I giovani stanno male. Lo sappiamo. Dati e ricerche segnalano da tempo che il benessere dei ragazzi è peggiorato, che i disturbi dell’umore degli adolescenti sono in aumento, che l’ansia è il comune denominatore di una generazione e la speranza fatica a illuminare lo sguardo in quell’età che in un tempo ormai lontano veniva definita “verde”. Cosa succede? Una recente ricerca condotta dall’Ipsos per l’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica ha fornito un dato preoccupante: più della metà dei giovani italiani ha un livello bassissimo di speranza nel futuro, e questo ha un impatto negativo sui livelli di benessere e sulla qualità della vita.
La crisi della fiducia che si è radicata nelle giovani generazioni non è un tratto esclusivamente italiano. Ma se fino a poco tempo fa questa fase di pessimismo si poteva inquadrare come una caratteristica sperabilmente temporanea delle nazioni più sviluppate, colpa magari della recente pandemia di Covid, del racconto sulla crisi climatica, per non dire dei social network o della dipendenza da smartphone, oppure – risalendo nel tempo – della Grande Recessione, analisi recenti aggiungono elementi sinistri quanto capaci di offrire una lettura meno emotiva: i giovani, a quanto sembra, stanno peggio non solo qui o in contesti simili, ma praticamente in tutto il mondo. Una nuovissima ricerca, il Global Flourishing Study, basata su varie indagini condotte da un consorzio di istituti, ha elaborato i dati raccolti per cinque anni su oltre 200mila persone in 22 Paesi e ha notato un cambiamento radicale nell’evoluzione del benessere, o meglio, della “prosperità”, concetto che tiene conto di più aspetti dell’esistenza di una persona, come la felicità, la soddisfazione, la salute fisica e mentale, il senso della vita, la stabilità materiale e finanziaria, le relazioni sociali, la spiritualità. Ora, per anni l’andamento del benessere complessivo ha seguito un andamento a U in un grafico che tiene conto delle età. Cioè: la prosperità è massima a 18 anni, scende lentamente fino a circa i 40-50 anni, poi risale invecchiando. Il nuovo studio mostra invece che oggi la U è stata sostituita da una J, nel senso che i livelli di benessere-prosperità sono già bassi alla prima età adulta, restano orizzontalmente bassi per lungo tempo, poi incominciano a crescere nel punto in cui salivano anche prima, intorno ai 43 anni. Benessere piatto, insomma.
Nello studio non c’è l’Italia, ma i 22 Paesi e i territori considerati, dall’Australia al Brasile, dalla Svezia alla Tanzania, dagli Usa alle Filippine, sono rappresentativi della metà della popolazione del mondo. Uno degli aspetti interessanti della ricerca riguarda il fatto che la prosperità generale può risultare alta sia in un paese molto ricco che in uno più povero, perché nei contesti avanzati o consumistici a prevalere è il punteggio del benessere materiale ed economico, mentre dove il Pil è più basso le persone spesso trovano un maggiore senso nella vita e intessono molte relazioni positive, a riprova che i soldi servono, ma non rendono sempre felici. Un altro elemento lo conferma, ed è il valore della fede: le persone che partecipano a funzioni religiose almeno una volta alla settimana esprimono punteggi di prosperità molto più alti ovunque rispetto a chi non crede, soprattutto nelle nazioni ricche, dove la secolarizzazione e il materialismo possono rendere più difficile individuare un significato, uno scopo, nella propria vita.
Tornando ai giovani, il discorso dei valori non materiali sembra in effetti essere l’elemento decisivo. La “famosa” curva a U, infatti, riappare quasi miracolosamente se si considerano i punteggi dei ragazzi e delle ragazze con più amicizie e relazioni sociali intime. Quasi a dire che il male planetario di questa generazione in erba è, ovunque, la solitudine diffusa, l’isolamento, il ripiegamento su sé stessi. Quando però si riesce a infrangere questo muro, trovando una comunità, tutto sembra tornare nella norma. Quale sia la causa di tutto questo è difficile da dimostrare, lo si può supporre pensando a quanto l’era digitale nel suo insieme – che non è solo “i telefonini” – ha trasformato le vite delle persone, cambiando la forma delle relazioni, in un villaggio globale in cui tutti in fin dei conti vedono lo stesso tipo di contenuti e condividono un immaginario molto simile. Ma siamo nel campo delle ipotesi. Ciò che emerge con forza è, piuttosto, la potenza dei legami solidi e duraturi tra le persone nel generare benessere e autentica felicità. Non sarà la cura definitiva, ma riscoprirlo, e ricordarlo, è già un aiuto. Ci vorrebbe un amico, insomma. O anche di più.