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di Gad Lerner
La cartolina di Boryslaw potrà anche sembrarvi bruttissima: una prateria bucherellata da pozzi di piccole dimensioni, sormontati da torri di legno e da leve metalliche in perenne oscillazione, come una folla di spaventapasseri che si mettessero tutti insieme ad agitare le braccia, estraendo petrolio dal sottosuolo. Eppure Bruno Schulz sapeva trarre ispirazione da quel paesaggio minerario grigioverde, oleoso e surreale che nella grande Polonia di cento anni fa veniva chiamato Klondike galiziano, o California dei Carpazi. Nella raffineria Galicja sul fiume Tys’mienica lavorava Izydor Schulz, fratello dell’artista. All’ombra del bosco di conifere lui stesso d’estate usava coricarsi con una delle sue amanti, la pittrice Anna Plockier. Quelle strane deformità meccaniche che avevano trasformato l’estremità occidentale dell’oblast di Leopoli in distretto energetico polacco, dando vita a un embrione di capitalismo ebraico, quali sembianze assumevano nella fantasia di un visionario come Bruno Schulz.
Del resto, bastava che volgesse le spalle all’oro nero di Boryslaw per restituirsi, lì attaccato, il grazioso profilo delle case dalle tinte pastello della sua Drohobycz, luogo incantato che non smise di raccontare e disegnare con talento impareggiabile fino al 18 novembre 1942. Quando Karl Gunther, ufficiale delle SS, per reagire al dispetto subito dal commilitone Felix Landau che si era preso Bruno Schulz come schiavo, lo freddò per strada con un colpo di pistola alla nuca: “Tu hai ucciso il mio ebreo, io ho ucciso il tuo”. Per la cronaca, il parco di Drohobycz nel quale il grande scrittore finì i suoi giorni riverso sul selciato, oggi è intitolato a Stepan Bandera, eroe indipendentista ucraino, cacciatore di ebrei e di polacchi. Poco importa se quella cittadina, che nel XX secolo fu asburgica, polacca, sovietica e che dal 1991 è ucraina, dovrebbe riconoscere di avere un debito di riconoscenza nei confronti di Bruno Schulz. Se è conosciuta nel mondo, se i più disparati ammiratori rendono omaggio alle sue botteghe color cannella, alla sua via dei Coccodrilli, ai suoi volatili impagliati, alla polposità dei suoi frutti estivi e soprattutto alla sublime carnalità delle sue fanciulle disinibite, ebbene, tutto ciò Drohobycz lo deve alla mente geniale e contorta di Schulz. Così Isaac Bashevis Singer lo ricordava in dialogo con Philip Roth: “La mia prima impressione fu che questa persona scrivesse come Kafka. Più leggo Schulz – forse non dovrei dirlo – ma in alcuni dei racconti , quando lo leggo, direi che sia meglio di Kafka. Vi è un vigore più grande in alcune delle sue storie”.
Proverbiali ci restano gli autoritratti in cui egli si raffigura sottomesso in ammirazione di fanciulle rese inavvicinabili dalla loro potenza erotica: “Camminano queste ragazze a coppie, dondolandosi sulle anche, spumeggianti di nastri e di gale”, e quando siedono, “come se fossero stanche della loro vuota parata, si scoprono le gambe posate l’una sull’altra, incrociate, intrecciate in una bianca forma piena di irresistibile eloquenza, e i giovani che camminano passando loro accanto tacciono e impallidiscono, colpiti dalla giustezza dell’argomento, profondamente persuasi e convinti”.
Di fronte all’ingratitudine che Drohobycz continua a riversare sull’enigmatico professore di disegno del suo ginnasio, a sua volta trasformatosi in timido seduttore, mi perdoneranno allora i vari David Grossman, Cynthia Ozick, Bohumil Hrabal, Tadeusz Kantor, Witold Gombrowicz, Adam Zagajewski che a Schulz hanno dedicato romanzi e tributato postumi omaggi, se ora preferisco accompagnarlo solo otto chilometri più in là nelle sue scampagnate a Boryslaw; dove mi piace credere abbia incontrato anche mio padre quand’era bambino e arrivava dalla lontana Aleppo per visitare i parenti. Solo di recente, infatti, la storica ucraina Lesya Khomych ha ritrovato nella rivista degli impiegati delle industrie petrolifere di Boryslaw un racconto di Bruno Schulz, pubblicato sotto pseudonimo. Risale al 1922 e ha lo stesso titolo, Undula, di un disegno dell’anno prima: vi compare una signora elegante che porta a spasso il cagnolino davanti alla grande sinagoga di Drohobycz, seguita da un ometto sgraziato che altri non è che l’autore. “Grazie a te, in un febbrile brivido di piacere, ho conosciuto la mia miseria e la mia bruttezza nella luce della tua perfezione”, leggiamo. “Adesso è giunto il tempo ch’io ritorni nel mio alambicco da cui sono uscito malriuscito e deforme”. Dobbiamo a Francesco Cataluccio la divulgazione in Italia di questo inedito, tradotto dal polacco da Irene Salvatori. Non è forse fra i racconti più riusciti di Schulz, ma è assai rivelatore della sua personalità intrisa di quel masochismo ebraico che non smette di imbarazzare gli estimatori, indotti per malintesa cortesia a minimizzarlo. Tra loro, del resto, ancora c’è chi non ha perso la speranza di ritrovare il manoscritto del romanzo Il Messia, nascosto da Schulz per sottrarlo alla furia distruttrice nazista. Chissà, dicono, che non giaccia in qualche vecchio archivio del Kgb. Si favoleggia che fosse il suo capolavoro. Se si è recuperata Undula, perché non dovrebbe saltar fuori prima o poi Il Messia?
A Boryslaw e a Drohobycz, intanto, regna una devastazione che precede di molto la guerra abbattutasi sull’intera Ucraina, oblast di Leopoli compreso. L’industria petrolifera è un lontano ricordo. La popolazione ebraica è stata sterminata. I polacchi sono stati brutalmente trapiantati altrove. Il genio di Schulz aleggia altrove.