Il prossimo film di Martin Scorsese sarà un documentario che girerà in Sicilia
23 Giugno 2024Il fascino indiscreto della Bourgeois
23 Giugno 2024di Vincenzo Trione
In certe giornate, non vorresti mai andare via da Napoli. Sono quei giorni nei quali, sul profilo mosso e inquieto della città, si staglia un cielo indimenticabile. Ne parlava Domenico Rea in Penseri della notte (1987, riedito da Dante & Descartes nel 2006 e nel 2020): «Non voglio fare il solito napoletano, ma un cielo come il nostro non l’ho mai visto. È un cielo che non si massifica. Non fa mai muro. Non esclude mai l’idea che di lì ci sia la luce, il varco per la speranza. È un cielo in viaggio. Cieli di questo tipo li ha dipinti solo Francisco Goya, il più grande pittore dell’Universo Mondo».
Il 15 giugno 2024 è una di quelle giornate. Limpido, perfetto. L’azzurro è una presenza invasiva. Domina e accarezza la piccola piazza Santa Maria degli Angeli, a pochi passi da via Montedidio e da piazza del Plebiscito. Si trova qui la nuova stazione Chiaia della metropolitana di Napoli (Linea 6), che congiunge la Mostra d’Oltremare e piazza Municipio. Si tratta dell’ala ulteriore di quella sorta di involontario museo d’arte contemporanea nato a Napoli nel 1995 (con la direzione di Achille Bonito Oliva). Dilatato, si sviluppa tra tunnel e aperture, dal centro alla periferia. Si snoda in superficie e lungo cammini sotterranei. Si confonde con le voci della città. Ed è contaminato dall’imprevedibilità dei gesti di chi lo percorre. Uno spazio ibrido, dove, sul modello di quel che accadeva nei cantieri rinascimentali, architetti (tra gli altri, Tusquets Blanca, Gae Aulenti e Alessandro Mendini) e artisti (come William Kentridge, Bob Wilson, Oliviero Toscani, Shirin Neshat, Ilya Kabakov, Francesco Clemente, Joseph Kosuth, Michelangelo Pistoletto, Nicola De Maria, Jannis Kounellis, Francesco Jodice, Luigi Serafini, Ettore Spalletti, Luigi Ontani, Domenico Bianchi, Sol LeWitt, Renato Barisani, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Mario Botta, Gilberto Zorio, Riccardo Dalisi, Enzo Cucchi, Ernesto Tatafiore, Gianni Pisani e Vettor Pisani) hanno condiviso strategie, alimentando feconde corrispondenze. I progettisti hanno disegnato ampie cornici, che sono state riattivate da installazioni site specific realizzate da artisti impegnati a trasgredire il perimetro tradizionale dell’opera, intenti a riaffermare il ruolo dell’artificio, la centralità del colore, il potere della decorazione. Attraverso contrasti e slittamenti, arte e architettura interagiscono, fino a riscoprirsi discipline sorelle. Luoghi di transito, di sosta e di attesa contemplativa, le stazioni sono diventate così teatri per sorprendenti cacce al tesoro, nelle quali sculture, fotografie e quadri sono come inciampi visivi. Ci vengono incontro quando meno ce lo aspettiamo. Al di là dei binari dei treni, mentre siamo sulle scale mobili, prima di uscire su una piazza, sulle mura di un palazzo. Le opere non possono essere fruite frontalmente, ma chiedono di essere viste in fuga, distrattamente. Per riprendere un’idea di Walter Benjamin, sono come proiettili lanciati contro gli spettatori, in grado di violare ogni aspettativa di senso.
Ala ulteriore di questo museo diffuso è la stazione Chiaia, il cui cantiere è iniziato nel 2009 (l’inaugurazione è in programma per metà luglio). Tante difficoltà, tra aumento dei costi e improvvisi riaffioramenti archeologici. Responsabili di questa impresa un architetto e un artista-regista, i quali hanno lavorato come autentici coautori: per la prima volta, quadri e sculture non entrano in un involucro già definito, ma nascono insieme con l’involucro stesso. Attenti a salvaguardare differenze e specificità, Uberto Siola e Peter Greenaway (in collaborazione con Saskia Boddeke) hanno intrecciato intenzioni, soluzioni e ripensamenti. Esito di questi scambi è un’opera che sembra concretizzare il concetto caro al Bernini di «bel composto», inteso come spazio dove pittura, scultura e architettura si contaminano.
Per Greenaway, la convergenza tra linguaggi non contigui è un’urgenza. Sin dagli anni di formazione, segnati dalla passione per l’arte. Da ragazzo, egli nutre l’ambizione di fare il pittore. Poi, alla scuola di Belle Arti, scopre il cinema. E decide di spostare il suo interesse dall’immagine fissa all’immagine in movimento. Nel corso degli anni, tuttavia, l’arte è rimasta un’eco necessaria, per Greenaway, i cui film più celebri (I misteri del giardino di Compton House, Giochi nell’acqua, Il ventre dell’architetto, Lo zoo di Venere e Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante) mostrano sempre un approccio profondamente «pittorico». Questa predilezione per gli sconfinamenti è ritornata in tante avventure installative di Greenaway, testimonianze di una vocazione enciclopedica e, al tempo stesso, di una tensione neobarocca: Watching Water, 100 Objects to Represent the World e, soprattutto, Classic Paintings Revisited (progetto in progress), riscrittura digitale, animata e immersiva di alcuni capolavori (La ronda di notte di Rembrandt, L’ultima cena di Leonardo e Le nozze di Cana di Veronese).
Dunque, iniziamo la nostra passeggiata, che si articola in cinque passaggi ed è costellata dall’incontro con dèi e dee. Si tratta di un intervento che sembra mimare una delle caratteristiche antropologiche e paesaggistiche di Napoli. Quell’instabilità che era stata colta ancora da Rea: «Vi è a Napoli qualcosa d’instabile che ne ridisegna di continuo i confini. Gli scogli si alzano e si abbassano. Le strade sprofondano o si ingobbiscono. All’improvviso un palazzo si trova sul vuoto. (…) Un cielo, a momenti tempestoso e goyesco, un secondo dopo diventa azzurro e sonoro di sole. Per questo motivo il carattere dei napoletani è tanto mutevole».
Siamo dinanzi a un’opera sincretista, che coniuga rimandi modernisti, echi classici e suggestioni letterarie. Evidente la citazione di Siola, che ha «riscritto» la spirale del Guggenheim di New York disegnata da Frank Lloyd Wright, cattedrale laica nella quale ci si può muovere in salita e in discesa, senza punti stabili. Esplicita la fascinazione di Greenaway per la sfera del mito classico, deposito di sapienze tradizionali, di riti e culti, nesso tra il presente e il passato più lontano, deposito di racconti e archetipi che permettono di decifrare le ragioni sottese all’ordine del mondo e alla struttura della società. Altrettanto chiara la ripresa compiuta da Greenaway della Commedia dantesca che, scriveva Giorgio Manganelli, si dà come «processo ininterrotto» e «corsa stremante tra luci e tenebre», come «strisciar tra cunicoli ed antri».
Poche scale sotto il livello della piazza, e ci si imbatte in una statua di Giove incastonata in una parete: di colore azzurro, ha 24 braccia vorticanti. È come un viatico: una divinità che sembra augurare buon viaggio. Qualche passo, e si entra. Siamo sovrastati da una cupola trasparente, dalla quale filtra luce. Si inizia la discesa, che conduce dal cielo agli inferi. È come una penetrazione della terra, ama ripetere Geeenaway.
Appena si varca la soglia dell’ingresso, una specie di meteorite. È un reperto archeologico, riemerso dagli scavi: un frammento di un acquedotto romano. Sulle pareti della scala elicoidale che si avvita e conduce verso il basso è riportato — trascritto con la grafia di Greenaway — un verso di Ovidio, elogio del potere taumaturgico dell’acqua. Connotato con cromie di volta in volta diverse, ogni «girone» di questa Commedia d’impronta postmodernista è dedicato a un mito. Dapprima, si entra nel cerchio ispirato al dio delle acque, Nettuno, con pareti di un azzurro intenso. Segue l’omaggio a Cerere/Demetra, la dea della fecondità. Sui muri verdi, Greenaway ha rievocato le iconografie di due affreschi pompeiani: una figura femminile e un groviglio di piante, di fiori, di frutta e di animali.
È il preludio all’agorà ideata da Siola, che rivela un citazionismo piuttosto stanco: una piccola piazza circolare, intorno alla quale è stato allestito un alto archivio-bacheca, parzialmente occupato da copie di calchi del Museo Archeologico di Napoli.
Si supera la piazza, per proseguire la discesa. Che conduce verso la casa di Proserpina: sulle pareti color arancio, sei grandi melograni, con riferimenti sessuali (una vagina). Forse, una rivisitazione de L’origine del mondo di Gustave Courbet.
Infine l’Ade, dove passano i treni. Siamo nel regno di Plutone. Quasi un remake delle malebolge dantesche. La trasfigurazione dell’Inferno. Un’altra minima cupola, punteggiata da centinaia di occhi. Ecco quel che resta di invisibili grovigli di anime.
C’è un colpo di scena, però. Diversamente da quel che accade nel poema dantesco, qui è possibile intraprendere un viaggio a ritroso. E risalire dall’abisso all’Empireo. Verso il cielo abbacinante di Napoli.
https://www.corriere.it/la-lettura/