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1 Dicembre 2022Fu Adolf Hitler a puntare sul Maggiolino della Volkswagen, deliziato dai suoi costi sostenibili. Quella macchina destinata al successo, entrata in produzione alla fine della Seconda guerra mondiale, divenne un simbolo planetario: era partita con l’ombra del nazismo appiccicato sulla sua carrozzeria e si trasformò nell’automobile della libertà. L’artista messicano Damián Ortega gli ha dedicato addirittura una trilogia (The Beetle Trilogy) e nel modernissimo Centro Botín di Santander, fino al 26 febbraio, i visitatori potranno alzare gli occhi al soffitto e vedere pendere il suo Maggiolino scomposto (nel 2015 planò anche in Italia, all’HangarBicocca di Milano). È Cosmic Thing, una delle sue opere più iconiche. Racconta l’artista che nel suo paese fu facilissimo preparare quell’installazione: il Maggiolino fu smontato da alcuni ragazzini in una manciata di ore, sull’onda della consuetudine – c’era grande scambio di suoi pezzi al mercato nero.
«Da principio, era una macchina considerata strategica da Hitler, eppure dopo alcuni anni è stata ’espropriata’ – spiega Ortega – trasformandosi in un fenomeno hippie. Rappresentava l’indipendenza dei giovani, il loro poter viaggiare grazie a quell’automobile economica, che divenne estremamente popolare. Il Maggiolino è stato prodotto in Messico per molti anni, era quasi parte del mio paesaggio urbano… In fondo, le cose non hanno mai fine, tendono a rinascere».
Expanded View, la mostra spagnola a cura di Vicente Todolí, presenta nove spettacolari installazioni aeree di Damián Ortega (che in questi giorni guida l’Art workshop al Centro Botín, tema le maschere, fino al 2 dicembre) è una sorta di autobiografia dell’autore, raccontando e approfondendo quella sua attitudine a decostruire gli oggetti ordinari, quotidiani, senza escludere però le galassie celesti, alla ricerca di connessioni segrete, non più soltanto materiche ma anche politiche e sociali. L’instabilità universale è un nostro destino poiché vive nelle relazioni di ogni parte con il tutto: si interagisce con il caos e l’imprevedibilità del mutamento.
D’altronde, quel cambiare i connotati alle cose, scrutandole dal di dentro e facendo evaporare la loro funzionalità primaria, viene da lontano. «Da bambino seguivo mio fratello, più grande di me. Era molto attratto dagli elettrodomestici, voleva capire come erano fatti dentro e poi giocavamo a rimettere tutto al suo posto. Ovviamente, non c’erano i pezzi di ricambio e, una volta smontati, gli elettrodomestici erano inservibili, per la disperazione di mia madre… L’infanzia è caratterizzata da una curiosità innata: significa esplorare ogni spazio, il proprio stare al mondo. Da adulto e ormai artista, ho guardato con interesse alle illusioni ottiche e trappole visive dell’Optical art. Quel trucco della percezione somigliava ai miraggi delle promesse politiche. È così che sono nate molte mie opere». Ortega, una formazione sostanzialmente autodidatta alle spalle, una passione per il muralismo messicano, i film b-movie e senz’altro per i readymade di Duchamp, nelle sue installazioni procede su più scale, dal molecolare al cosmico, e viceversa. In mostra, c’è il pianeta scomposto in quel Viaje al centro della terra: penetrable che sospende centinaia di frammenti di materiali polverizzando qualsiasi tentazione di monumentalità, e c’è il cielo con Polvo estelar, anch’esso esploso. Vorticano in altezza rocce vulcaniche, pomice, spugne e tubi di plastica, come se una forza centrifuga disponesse a suo piacimento l’universo e risputasse fuori dal buco nero miriadi di oggetti vaganti, residui non più produttivi.
Lo stupore è un attivatore di coscienza, è necessario alla produzione creativa. «Adoro quel click, lo speciale ’squilibrio’ che si verifica quando riconsideri e reinterpreti ciò che hai visto in un altro modo, è come una rivelazione. Lo studioso e critico d’arte Guy Brett – afferma l’artista – una volta scrisse qualcosa che mi sorprese: aveva risolto l’enigma di quel che io realizzavo in modo intuitivo. Dimensione cosmica e mondana sono elementi interconnessi. L’idea che tutto sia collegato e correlato è straordinaria. Come persone, ci occupiamo della società, conduciamo un’esistenza individuale e, allo stesso tempo, siamo immersi nella natura, siamo particelle cosmiche e atomiche». Grazie ai suoi esordi da vignettista caustico per giornali e riviste, al padre attore di teatro satirico che lanciava aspre critiche dal palcoscenico, allo zio giornalista («i tempi erano feroci eppure c’era entusiasmo, nelle strade si manifestava e l’arte era partecipe, aveva un ruolo pubblico»), Ortega tende a non distrarsi mai dalla complessità geopolitica contemporanea. Hollow / Stuffed: market law è l’installazione che chiude il percorso della sua personale. Raffigura un sottomarino realizzato con vecchi sacchi di plastica, metallo e sale ed è una diretta emanazione della cronaca messicana: quando un giornale raccontò del ritrovamento di un sottomarino che i narcos sfruttavano per il trasporto di droga in Sud America, Damián ne fu stregato ed è così che il sale, uscendo da un foro come fosse un’emorragia, si accumula a terra, mimando la merce-cocaina e ricordando il business dell’epoca coloniale.
Nato a Città del Messico nel 1967, pur essendo un girovago al seguito delle sue opere, Ortega non ha mai lasciato il suo paese per trasferirsi altrove. «Il Messico è sempre molto vivo, ecco perché amo vivere qui. È anche un disastro, certo, accadono cose orribili in ogni momento. È un luogo a volte spaventoso e triste. Potrei dire che è una specie di giungla, un delirio, un paese in cui vigono due anarchie che viaggiano insieme: una funzionale e l’altra disfunzionale».