Ayelet Gundar Goshen
fabiana magrì
tel aviv
Dalla voce calma, dai sospiri, dalle pause e dalle parole pesate e pensate, transita il profondo dolore di Ayelet Gundar Goshen, scrittrice e psicologa clinica israeliana.
«Sto sperimentato da vicino il dolore e l’agonia delle persone sopravvissute ai massacri del 7 ottobre. Sto lavorando al centro di intervento traumatologico dell’ospedale di salute mentale Shalvata a hod HaSharon, vicino a Tel Aviv. Ma faccio anche avanti e indietro con Eilat, per lavorare con le famiglie evacuate dai kibbutz dopo che le loro case sono state devastate o date alle fiamme da Hamas».
La morte violenta e brutale e l’incertezza sul destino delle persone care rapite da Hamas in un evento così tragico lascia senza dubbio profonde cicatrici. Può descrivere il costo emotivo che la popolazione israeliana sta pagando e come potrebbe influenzare la loro psiche collettiva?
«La psiche collettiva è quella del trauma, del lutto, dello choc. Abbiamo smesso di chiederci a vicenda “come stai?” quando ci incontriamo, perché nessuno sa come rispondere a questa domanda. L’intero Paese è sotto choc e in lutto. La nostra fiducia nella sicurezza, nel governo e nell’umanità è severamente compromessa. È dalla Shoah che non c’è più stata una tale perdita di civili. Così tanti ebrei uccisi in un solo giorno, in un solo shabbat. Gli effetti di questa psiche collettiva post trauma dureranno anni. La perdita di fiducia impiega molto tempo per risanarsi».
Sull’altra faccia della moneta, opposta alla perdita di fiducia, c’è il senso di colpa. È un’altra sfaccettatura del trauma?
«Il mio primo pensiero va alle persone nei kibbutz. Che hanno aspettato che l’esercito, l’aviazione, il Paese arrivassero a salvarli. Mandavano messaggi agli amici, ai canali tv, per dirci che i terroristi erano alle loro porte, implorandoci di andare ad aiutarli. Ma nessuno è arrivato. Sono rimasti soli per ore, con i terroristi che andavano di casa in casa, sparando all’impazzata, dando fuoco a tutto, uccidendoli. Parlando di fiducia, questo è il momento il cui il patto sociale tra i cittadini, il Paese, il governo e il sistema si è spezzato. E noi altri, abbiamo deluso quelle persone, come Paese».
Crede che la brutalità e le violenze subite abbiano compromesso anche una più ampia perdita di fiducia nell’umanità?
«Una donna che aveva appena partorito è stata data per dispersa dopo il massacro. Il neonato era ancora in fase di allattamento così altre madri israeliane si sono fatte avanti per nutrire questa bambina, perché potesse ricevere ancora latte materno. Speravano che la madre sarebbe tornata. Invece è stata trovata morta, uccisa nel massacro della festa. Ma queste madri che hanno donato il latte del loro seno sono il simbolo di una generosità, che puoi trovare anche nei tempi più spietati. Ecco perché non ho perso la mia fiducia nell’umanità. Purtroppo il nostro popolo è stato messo alla prova ancora una volta. E il fatto che il mondo non si pronunci con vigore contro questa crudeltà è una grande delusione. Pensavo davvero che avremmo visto la vera solidarietà tra persone che si prendono cura gli uni degli altri. Si può restare contrari all’occupazione ed essere altrettanto contrari alla tortura e al massacro degli ebrei. Chi non lo riconosce, non può essere visto come un partner, come qualcuno con cui marciare fianco a fianco in nessuna circostanza. La sinistra progressista ha perso la sua dignità morale ed è profondamente confusa tra la denuncia dell’occupazione, che è legittima, e il tentativo di razionalizzare qualcosa di barbarico e inumano come il massacro di Hamas».
Come ritiene che ciò influirà sulle prospettive di un futuro dialogo o coesistenza con il popolo palestinese?
«Da madre, dico ai miei figli che a comportarsi in modo sbagliato è stato Hamas, non i palestinesi in generale. Cerco di separare il concetto del governo da quello del popolo. Perché non voglio che i miei bambini finiscano per odiare tutti i palestinesi. Voglio che sappiano che possono odiare e denunciare gli orrori Hamas ma questo non significa che ogni civile palestinese sia un nemico. Cerco di lasciare uno spiraglio aperto per – forse – una riconciliazione futura con le persone dall’altro lato. Ma devo dire che al momento, con tutta questa agonia e tutto questo dolore del popolo israeliano, in ansia per la vita di oltre 200 ostaggi, è molto difficile pensare alla pace e alla riconciliazione».
Anche la percezione di Hamas, sebbene fosse già considerato un nemico, si è trasformata?
«Abbiamo sempre saputo che Hamas era un nemico, un gruppo fondamentalista islamico estremista religioso. Ma non ci saremmo mai potuti immaginare che un tale livello di crudeltà fosse possibile. Non ci sono parole per descrivere quello che hanno fatto ai neonati, ai bambini, alle donne. Non ce ne sono, davvero».