“Il social X rispetti le regole Ue in gioco c’è la democrazia”
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9 Gennaio 2025Le minacce del tycoon
«La frontiera è una linea completamente arbitraria». Parola di Donald Trump, il presidente Usa che aveva del muro – fisico e legale – per blindare i confini l’emblema del primo mandato: il Messico. Il leader eletto stavolta si riferisce però alla linea di separazione con il Canada che vorrebbe trasformare nel 51esimo Stato Usa. Dopo averlo ribadito nella conferenza-show di Mar-a-Lago, ieri ha pubblicato su Truth una mappa “rivisitata” che mostra i due Paesi uniti sotto la medesima bandiera a stelle e strisce e la didascalia “Oh Canada”. Solo provocazioni senza fondamento, ritengono i principali analisti nonché l’attuale segretario di Stato Antony Blinken.
Le parole del tycoon, però, hanno già avuto l’effetto concreto di unire governo e opposizione canadesi proprio in uno dei momenti di massima tensione politica. Il premier liberale dimissionario, Justin Trudeau, e il conservatore Pierre Poilievre hanno messo da parte lo scontro per la successione per respingere all’unanimità la minaccia dell’ingombrante vicino. Lo stesso è accaduto a proposito della Groenlandia, con la risposta piccata dei vertici europei arrivata per bocca del cancelliere tedesco Olaf Scholz. «I confini non possono essere modificati con la forza», ha spiegato dopo aver sentito gli omologhi dell’Ue. Dello stesso parere le Nazioni Unite. Il portavoce di Palazzo di Vetro ha sottolineato: «La Carta Onu, che gli Stati membri hanno sottoscritto, è molto chiara sulla sovranità e l’integrità territoriale ». La Danimarca, in realtà, ha cercato di stemperare la tensione dicendosi «aperta a colloqui con Washington per salvaguardarne gli interessi nell’Artico ». La nuova geografia trumpiana, però, non riguarda solo il Nord. È a Sud anzi che, visto il passato recente, le sue esternazioni hanno causato maggiori preoccupazioni. A Panama, in particolare, l’ipotesi di perdere di nuovo il controllo del Canale ha risvegliato il fantasma mai sopito dell’ultimo intervento Usa, di cui lo scorso 20 dicembre è stato commemorato il 35esimo anniversario. Allora si trattò di una mossa di George Bush padre per liberarsi dell’ex alleato Manuel Noriega, diventato ormai scomodo. Ora Trump punta a un tasto ancora più sensibile per la nazione centramericana e l’intera America Latina: il controllo dell’Istmo.
La restituzione del Canale, nel 1999, con il cosiddetto “trattato di neutralità” non ha solo risolto una controversia lunga un secolo. Il gesto di distensione doveva inaugurare un “nuovo corso” tra le due metà del Continente, scevro – almeno in teoria – dalle dinamiche imperialiste del Novecento. Da qui la risposta piccata del ministro degli Esteri, Javier Martínez-Acha: «La sovranità dell’Istmo non è negoziabile ». Il strada di 64 chilometri fra i due Oceani nel cuore d’America è uno dei vecchi cavalli di battaglia del presidente eletto che, tra l’altro, proprio a Panama ha inaugurato la propria catena di alberghi all’estero. Sette anni dopo, però, ha perso l’albergo in seguito a una disputa legale con la società di gestione. Era il 2011 quando il magnate newyorkese cercò per la prima volta la nomination repubblicana – vinte da Mitt Romney – tuonando contro la «truffa » della cessione del Canale. Perché rispolverare la questione proprio ora, però? L’ipotesi più immediata è che si tratti di un “gioco al ribasso” per avere uno sconto sui pedaggi per le navi Usa, appena aumentati dopo la siccità che ha rischiato di paralizzare il funzionamento del passaggio. Il transito di ogni imbarcazione richiedo l’impiego di duecento milioni di litri d’acqua dolce. Da qui la scelta del governo di incrementare le tariffe per tutti. L’impatto sugli Usa, tuttavia, è maggiore dato che le sue navi rappresentano il 74% del totale. La questione, però, potrebbe essere più articolata. E il Canale potrebbe essere solo un elemento della principale partita che Trump intende giocare con l’America Latina: quella migratoria. In quest’ottica, Panama sarebbe finita nel mirino poiché attraverso il proprio territorio passa una delle più affollate rotte verso gli Usa. Negli ultimi anni, la giungla del Darién è diventata l’unica opzione per i più disperati del Sud. L’attuale presidente, José Raúl Mulino, entrato in carica lo scorso luglio, ha inaugurato il proprio mandato con un programma di rimpatri per gli irregolari presenti nella parte panamense del Darién.
Il piano, finanziato da Washington, ha fatto calare il flusso del 42%. Trump, però, potrebbe guardare oltre. Per realizzare il progetto della deportazione di massa ha necessità della collaborazione dei vicini chiamati ad accogliere i rimpatriati. Non solo i propri cittadini ma anche e soprattutto gli altri.
La minaccia, in quest’ottico, sarebbe il modo del tycoon di iniziare una trattativa. Con Panama, certo ma anche con il Messico, citato in causa a proposito del Golfo a cui vorrebbe cambiare il nome, trasformandolo in “Golfo d’America”. Provocazione di fronte alla quale la presidente Claudia Sheinbaum ha scelto di replicare con ironia: «Perché non chiamiamo gli Stati Uniti America messicana? Suona bene, no?».