Era l’inizio di primavera di dieci anni fa, marzo 2014, Emanuele Macaluso compiva novant’anni e passai una mattinata nella sua casa a Testaccio, lo intervistavo per L’Espresso.
I piedi appoggiati su un cuscino, circondato da pile di giornali e di libri, alle pareti il simbolo della Trinacria, il disegno di Renato Guttuso, con la colomba della pace schizzata per il primo maggio 1982, il giorno dopo il massacro mafioso del segretario del Pci siciliano Pio La Torre con Rosario Di Salvo, all’ingresso la foto con Yasser Arafat.
Ho ripensato con nostalgia a quella lunga conversazione, in questi giorni che festeggiamo i cento anni dalla nascita di Em.Ma. «Confesso, ho un’angoscia: la mia preoccupazione è che Renzi andrà a fare il botto», disse. «E se fallisce Renzi, dopo di lui cosa c’è? Non c’è niente». Renzi era appena arrivato a palazzo Chigi, sembrava avere davanti un paese da conquistare, qualche settimana dopo prese il 40 per cento alle elezioni europee, tutti magnificavano il suo genio politico.
Macaluso guardava più in là, andava oltre un successo elettorale senza radici. Coglieva il punto di crisi della sinistra post-comunista: «Tranne il povero Occhetto sono tutti andati al governo, hanno tutti fatto il ministro: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi… ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. L’obiettivo di stare al governo è diventato totalmente scisso da un’idea di società».
Non erano i ragionamenti di un nostalgico, come non lo sono le analisi che Rino Formica pubblica puntualmente sul Domani. Nostalgici, semmai, appaiono gli ex giovani del Pci degli anni Settanta e gli ex giovani Dc degli anni Ottanta che curiosamente, a distanza di poche settimane, si sono ritrovati a Firenze (gli ex Fgci con D’Alema) e a Maiori (Lusetti, Enrico Letta, Franceschini, i ragazzi di Zac, come Zaccagnini). Riunioni che sono il segno di storie politiche oggi consegnate al passato. Mentre la questione posta dal vecchio Macaluso resta.
La sinistra per mezzo secolo è stata condannata a restare fuori dal governo, per ragioni interne e internazionali, ma coltivando un orizzonte politico. Nei successivi trent’anni è stata condannata a restare dentro il governo, ma come effetto di accordi spuri, larghe intese, unità nazionali, senza vittorie elettorali e senza un corpo a corpo con la società.
Quando a sinistra si parla di astensionismo, di riportare gli elettori alle urne come di una missione impossibile, una grande muraglia di distanza e di sfiducia da scalare, ci sono dietro le spalle anni di governo senza popolo, dopo decenni di popolo senza governo.
Una situazione oggi aggravata dalla polarizzazione, dalla radicalizzazione delle posizioni che avvelena il dibattito pubblico. Il tempo di guerra che viviamo, dalla mattanza infernale di civili e bambini palestinesi nella striscia di Gaza alla Russia oggi colpita dal suo Bataclan, dalle conseguenze imprevedibili, ferisce prima di tutto la linea di confine, chi si sforza di ricucire, di tenere insieme.
SPIRALE DISTRUTTIVA
Siamo nel tempo dell’aut aut. In questo tempo la destra appare più attrezzata a unire gli integralismi con la spregiudicatezza del potere. Meloni con Ursula von der Leyen, Salvini contro, ma potrebbe essere anche l’opposto.
A sinistra, invece, ogni integralismo avvia la spirale distruttiva, il meccanismo che porta a considerare di volta in volta le posizioni assunte o troppo deboli o troppo radicali. La capacità manovriera si concentra sulla bassa cucina: per esempio, Renzi e Calenda che a Roma attaccano il Pd di Elly Schlein, perché contiguo ai Cinque stelle ambigui con la guerra in Ucraina, e nelle regioni e nelle città si alleano con Salvini che festeggia Putin.
Lo spirito di dissoluzione, di difesa del proprio orticello, è tanto più grave ora che il ferro e il fuoco dominano la scena internazionale e presto spaccheranno l’Europa e che in Italia la destra procede verso quella che Romano Prodi ha chiamato «appropriazione progressiva dello stato».
L’urgenza delle cose dovrebbe spingere almeno la segretaria del Pd che guida la principale forza dell’opposizione a evitare il tormentone su chi fa il capolista al sud o nel nord est, i bilancini delle varie correnti, e buttarsi nella mischia, nel corpo a corpo con la società.
La battaglia politica, l’avrebbe chiamata Macaluso. Un vuoto enorme da riempire, per provare almeno a sgretolare la muraglia della sfiducia. Il popolo del non voto che oggi rischia di diventare il popolo senza democrazia.