Il disordine del palinsesto architettonico e storico di Roma sedusse Louise Bourgeois (1911 -2010) fin da suo primo viaggio in Italia. Lo trovava fantastico e non poteva essere altrimenti per una artista come lei, abituata ad accumulare e «riparare» oggetti e feticci, cucendo minuziosamente frammenti di memoria nelle sue opere, sedimentando ricordi, shock infantili e finzioni immaginifiche tanto da costruire una narrazione di sé rigorosa, fisicamente terapeutica, sempre posta in relazione con l’ombra di un corpo accogliente ma crudele, gabbia repressiva e luogo aperto del desiderio – vera e reiterata «origine del mondo».
ROMA, quindi, manterrà una sua segreta somiglianza con quelle «celle» favolistiche, stanze autobiografiche e molto filmiche che Bourgeois finirà per imbastire, a partire dagli anni Novanta, nel suo studio newyorkese. L’Europa, d’altronde, non le apparteneva più, se l’era lasciata alle spalle insieme alla Francia natìa, sposando il critico d’arte americano Robert Goldwater. Era il 1938: lontana dai venti cupi della guerra, sarà libera di concentrarsi esclusivamente sulla sua «scena primaria» – madre indebolita dalla Spagnola, padre infedele e abbandonico –, quel trauma che rivendicherà come fondante e germinativo dell’arte, creando una propria mitologia di appartenenza identitaria nell’insistenza di una dualità sessuale in conflitto, fra paure ancestrali e radicamento nella solitudine di ogni individuo, una volta espulso e immesso nel circolo inarrestabile di vita/morte. Lo stesso dove gli organi «riproduttivi» sono famelicamente protagonisti e testimoni obliqui di passato e futuro. Nel libro Distruzione del padre / Ricostruzione del padre. Scritti e interviste (Quodlibet, 2009), attraverso i numerosi testi, anche adolescenziali – il diario del 1923 smarrito da in treno, fu poi ritrovato su una bancarella parigina – si può rintracciare tutta la potenza creatrice della ripetizione simbolica del sé.
IN EUROPA, però, a partire dagli anni Sessanta, Bourgeois tornò spesso. Se a Carrara e Pietrasanta lavorava il marmo (aveva pure uno studio), a Roma passava i pomeriggi tra i giardini e l’interno della Galleria Borghese, in preda alla sindrome di Stendhal («è stato meraviglioso, un sogno, 6 Bernini», scrive).
L’affinità elettiva fra l’artista e la collezione del cardinale trova ora una nuova e vivificante corrispondenza nella mostra allestita presso la Galleria Borghese Louise Bourgeois. L’inconscio e la memoria (visitabile fino al 15 settembre, ideata da Cloé Perrone e curata da Geraldine Leardi e Philip Larratt Smith, in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia – a Villa Medici è ospitata anche l’installazione No Exit – e con il supporto di Fendi).
LA MISE EN ABYME è il dispositivo narrativo che si sviluppa sala dopo sala, mascherando e rivelando una serie di venti opere in dialogo metamorfico (e psicologico) con i temi affrontati dagli antichi maestri, sconfinando nell’Uccelliera e il giardino, fra mani che si cercano e un celebre Spider, ragno materno che tesse (i suoi genitori avevano un negozio di arazzi che pure restauravano, ndr), protegge e, non di rado, fagocita. Nella Sala di Apollo e Dafne, il transito dei corpi che si fanno selvatici è riproposto dalla scultura Topiary dove un busto di fanciulla si apre alla fertilità in forma di pianta.
La trasformazione, il rito di passaggio che segna lo spogliarsi dall’infanzia per accostarsi all’età adulta, è ancora lo spinoso tema «racchiuso» nella Cell (la più grande da lei creata) ricostruita nella Loggia di Lanfranco. Passage dangereux il titolo, a segnalare che ogni risveglio a vita nuova porta con sé il rischio di dolorose consapevolezze, a fronte della perdita di innocenza.
Sulle orme di Louise Bourgeois e della sua eccezionale presenza in Italia, si può improvvisare un Grand Tour contemporaneo, sbarcando a Napoli – presso la galleria Trisorio che dal 25 giugno le tributa un omaggio con Rare Language – e viaggiando alla volta di Firenze, dove al Museo del Novecento, in corso di celebrazione dei suoi primi dieci anni di attività (nonostante gli ostinati attacchi del candidato sindaco a destra Eike Schmidt) si dipana fino al 20 ottobre un’altra magnifica mostra, incentrata sul complesso dell’abbandono, riprodotto dall’artista sotto forma di quell’ossessione seriale che la accompagnerà per l’intera esistenza. L’eco di Bourgeois si propaga anche all’Ospedale degli Innocenti: due luoghi fiorentini che le sarebbero senz’altro piaciuti, quest’ultimo in risonanza con la privazione di cure e il tradimento dell’infanzia su cui la scultrice e pittrice torna spesso. Il Museo del Novecento, diretto da Sergio Risaliti (che ha curato l’esposizione insieme a Philip Larratt-Smith), abitato nel Chiostro da Spider Couple, un doppio ragno iconico, narra invece nei suoi spazi monastici storie di ragazze povere cui si offriva un riparo. L’osmosi è totale: il bambino intrappolato nella retina incorpora il trauma e lo restituisce in fieri.
UN’INFILATA impressionante di gouaches sanguigne e amniotiche, forme organiche, botaniche, erotiche e soprattutto maternità a doppio taglio (la morte della madre vissuta come espiazione, il «dare alla luce» come distacco colpevole) popolano le stanze, riconsegnando una intimità sospesa e forse violata. Camere del ricordo in cui il colore fluisce sfaldando il controllo. In mezzo a tanto liquido connettersi con gli stati della vita, c’è la collaborazione fra Bourgeois e Tracey Emin, sedici stampe digitali su tessuto dal titolo Do Not Abandon Me, veri e propri sudari della memoria.