Dopo aver letto in passato nomi che rasentavano la sconvenienza come Arafat, Begin, Kissinger o Abiy Ahmed Ali ho dubitato non della pace ma dei giurati. L’assegnazione ieri alla organizzazione che riunisce i superstiti delle bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki è una occasione mancata, un Nobel stanco, inespressivo, scorciatoia per evitare i guai del calarsi davvero nel presente. In fondo non è la solita razione di segatura quotidiana, una ortodossia della quiete, l’assuefazione a niente che tenga per più di cinque minuti?
Nei cieli ci sono missili e aeroplani, milioni di uomini stanno rintanati nelle trincee, dentro le case le baracche i bunker non c’è più luogo che abbia in Europa in Africa nel Vicino Oriente silenzio e quiete. Era obbligatoria una scelta dura, implacabile, un grido di pacifismo non quietista ma rivoluzionario. Perché cosa c’è di più rivoluzionario della pace, che significa spazzar via l’andamento politico del mondo? Ecco: bisognava non assegnarlo, astenersi polemicamente, uno schiaffo ai piazzisti della morte redditizia, politici, banchieri pescecani in cravatta e consiglio di amministrazione, come è avvenuto durante la prima e la seconda guerra mondiale o negli anni più aspri della guerra fredda. Quando premiar la pace era impossibile, perfino indecoroso. Ricordare la tragedia e l’impegno dei giapponesi superstiti sarebbe stato tutto questo ma nel 1945! Quando per la prima e unica volta l’apocalisse fu usata per applicare una nuova dimensione del delitto contro l’umanità. Nel 1945 invece fu assegnato a Corder Hull, un politico di quella democrazia americana che il Delitto aveva commesso; non per accelerare la pace, come si giustificò a posteriori, ma per dimostrare di fronte ai futuri nemici, che stava già individuando, che la potenza aveva un nuovo monopolio.
Sì. Lo so. la scelta dei testimoni dell’unica apocalisse realizzata dovrebbe ricordarci che la Bomba non è più l’arma non arma, pura deterrenza reciproca da custodire nei silos, quando dire che il mondo si preparava al conflitto senza ritorno era per fortuna improprio e l’avvenire inconoscibile era sbarrato comunque da questa contraddizione. Oggi il possibile suicidio del mondo si sente, si annusa per la mancanza assoluta di un ordine internazionale convincente. Per l’atomica si usa di nuovo la parola fatalità, con la stessa disinvoltura rassegnata con cui si parlava della fatale conseguenza dell’attentato di Sarajevo. Oggi la Bomba viene maneggiata come una normale possibilità strategica e tattica dotata anche di teorie giustificatrici.
Ma il problema non è la Bomba, il problema è la Guerra: le guerre piccole grandi moderne vecchie ideologiche fanatiche nazionalistiche imperialistiche economiche e territoriali. Dove il terrore grugnisce, fiuta la direzione del vento. È contro questa Guerra normale e globale a cui ci stiamo abituando e rassegnando, contro questa Guerra giusta, giustificata, auspicata come nuova igiene del mondo, nostalgia di barbarie, che i cinque giurati di Oslo avrebbero dovuto lanciare un urlo furioso, un esplicito stato di accusa.
Il Nobel dovevano assegnarlo ad altri sopravvissuti, ai sopravvissuti di Gaza e del sette ottobre, del Libano e dell’Ucraina, del Sahel e del Congo, del Sudan e del Tigrai e di Siria, i luoghi dove stiamo organizzando il nostro naufragio: sfiniti e irriducibili, le pieghe fiamminghe dei loro visi che ci impietriscono, il cui dolore va al di là delle immagini, dissodando ciascuno patiboli per nulla nuovi, già incrostati di altri calvari, sangue su sangue, fame su fame, gli urli, lo strazio, i petti squarciati.