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8 Ottobre 2022Dopo il premio alle intenzioni mai concretizzate di Barack Obama, nel 2009, o quello conferito dieci anni dopo al premier etiope Abyi Ahmed, le cui vere intenzioni – siglare la pace con gli eritrei per far meglio la guerra ai tigrini – sarebbero emerse solo qualche tempo dopo, quest’anno tra i più papabili figurava Volodymyr Zelensky.
ALLA FINE IL NOBEL PER LA PACE non è andato al presidente ucraino, malgrado i favori dei pronostici. Resta comunque un regalo avvelenato per Vladimir Putin nel giorno del suo 70esimo compleanno. Sebbene la scelta del comitato di Oslo di tripartire il prestigioso riconoscimento abbia finito per seminare scontento su entrambi i lati del fronte.
Ma tant’è: il premio del 2022 va all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, a un’organizzazione russa (Memorial) e una ucraina (Centro per le libertà civili), perché tutti e tre «insieme dimostrano il significato delle società civili per la pace e la democrazia». Tre realtà che «nei loro Paesi hanno per molti anni promosso il diritto di criticare il potere e proteggere i diritti fondamentali dei cittadini – recita la motivazione -, facendo uno sforzo straordinario per documentare i crimini di guerra, gli abusi dei diritti umani e gli abusi di potere».
SCONTATE LE REAZIONI di fastidio suscitate in Russia: Memorial, con una storia di difesa dei diritti umani, di sostegno alle vittime della repressione e alle loro faniglie che inizia già in epoca sovietica, è catalogata come «agente straniero» e ha subisce una persecuzione ostinata culminata con la chiusura lo scorso dicembre; quanto al Centre for Civil Liberties, soggetto della società civile ucraina nato nel 2007 in chiave anti-corruzione e riconvertito dallo scorso febbraio in centro di raccolta e documentazione dei crimini di guerra russi in territorio ucraino, gli viene ovviamente rimproverato di non aver mai documentato i crimini ucraini nel Donbass.
ANCHE DA KIEV traspare una certa irritazione, malcelata dall’ironia con cui Mykhailo Podolyak, consigliere capo della presidenza ucraina, prova a commentare il Nobel di quest’anno: «È fantastico – dice – come i rappresentanti di due Paesi che hanno attaccato un terzo Paese ricevano il Nobel insieme». L’accostamento è a suo dire inaccettabile, dal momento che «le organizzazioni russe e bielorusse non sono state capaci di organizzare la resistenza alla guerra».
SUCCEDE CHE UN NOBEL per la pace assegnato in tempo di guerra risulti divisivo a dir poco: il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico. E lo spirito che dovrebbe istruire il premio sembra scivolare in secondo piano. Quelle di Podolyak restano parole pesanti da digerire per un avvocato come Ales Bialiatski, che da una vita difende gli attivisti perseguitati dal regime di Minsk e sostiene le famiglie degli arrestati, avendo iniziato anche lui negli anni ’80 le sue battaglie. Fondatore di Viasna, principale rete di difesa dei diritti umani in Bielorussia, Bialiatski è a sua volta incarcerato dal 2021 per presunta evasione fiscale. Non esattamente un sodale del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, il più fedele alleato su cui Putin possa ancora contare nella regione (ieri gli avrebbe regalato un trattore).
SI DICE «FELICE» PER LA SCELTA di Oslo Lev Ponomarev, storico oppositore russo che figura con Andrei Sakharov tra i dieci fondatori di Memorial. «Quando abbiamo iniziato 35 anni fa questo era inimmaginabile», ha detto durante una conferenza di esiliati russi a Parigi. Solo che anche lui avrebbe preferito un premio «per tutti coloro che sono stati in prima linea contro Putin, i prigionieri politici che ora sono in carcere e che avrebbero meritato maggiore considerazione».