Nel 1960, dovendo pubblicare un volume fotografico sull’Italia del miracolo economico, la casa editrice Einaudi attinse al repertorio di Carlo Levi e scelse come titolo Un volto che ci somiglia. Chissà se all’epoca qualcuno si sia accorto dell’anomalia. Probabilmente no. Però ancora oggi si rivela una contraddizione che per un reportage di centoventi scatti, con cui il tedesco János Reismann raccontava un Paese sottoposto a trasformazioni antropologiche e sociali, si prendesse in prestito un’espressione dalle pagine di Cristo si è fermato a Eboli, l’opera più rappresentativa di Levi, ma anche quella che affermava il teorema dell’elegia contadina, condannando il mondo premoderno al paradigma dell’immutabilità storica.
Quel titolo non restituiva certo il carattere di una stagione in fermento, anzi testimoniava con mille ambiguità l’immagine di una stagione che non poteva – e non doveva – somigliare più a nessuna delle precedenti. Anziché chiarificare, insomma, esasperava i dubbi: quale nazione ci somigliava, quella ancora in groppa agli asini o quella a bordo delle Cinquecento? La questione rientra ancora adesso nel grande tema della nostra identità, resa ancora più tormentata non per quel che accadde un po’ ovunque, nella cronaca minima delle famiglie arrivate in città o sparse nelle aree interne, ma per come quella cronaca minima veniva narrata. Stiamo riferendoci a quel Novecento poco sfiorato dalla formalità dei documenti, dalla pericolosa imponenza delle guerre e delle dittature, dal peso ingombrante della politica e la violenza dei contrasti sociali. Stiamo parlando dei mutamenti nella mentalità e nei costumi, nelle prospettive individuali e collettive, nel vissuto di un quotidiano declinato secondo i modi di una provincia che cercava a ogni costo l’esperienza dell’inurbamento perché solo nella città ordinata secondo il modello di industrializzazione poteva manifestarsi l’antropologia del cambiamento osservabile da una prospettiva a cui gli autori di questi due volumi attribuiscono l’etichetta di «effimero» (inteso nel significato di apparente, verificabile in superficie, ma non per questo banalmente superficiale) e la categoria di «altro».
La sensazione è che sotto il Novecento ufficiale – quello della tradizione storica, che ha avuto fin troppa fiducia nel ruolo delle masse o nell’ingerenza delle ideologie – si nasconda uno altrettanto vasto, però informale, un Novecento minore, più alla portata della gente comune. Ed è proprio su questo ennesimo malinteso che occorrerebbe riflettere. Infatti, se dovessimo dare retta non tanto a ciò che il secolo è stato, ma a come ci è stato consegnato dal punto di vista narrativo – restituito a noi attraverso il racconto degli scrittori, le inchieste dei giornalisti, i reportage dei viaggiatori d’eccezione: da Piovene a Soldati, da Landolfi alla Ortese, da Alvaro a Comisso –, si resta perplessi dinanzi al sentimento di nostalgia per la perduta civiltà dei contadini e degli artigiani, delusi dalla «reazione di indignata sorpresa», per dirla con le parole di Claudio Giunta, che condizionò lo sguardo degli intellettuali dinanzi a quell’umilemque Italiam, rimasta troppo a lungo prigioniera di una condizione primitiva e poi improvvisamente toccata dall’euforia del Boom in vista di un riscatto che fosse morale prima ancora che economico. Il dato non può passare inosservato perché è come se gli intellettuali non avessero a disposizione altra soluzione se non quella di ritrarsi impauriti, gridare all’apocalisse, arretrare su atteggiamenti di inequivocabile antimodernità in virtù forse di un antico privilegio che non ha mai avuto etichette o giustificazioni al di fuori dell’involontario fastidio classista (e qui occorre usare un termine novecentesco) verso le forme di un progresso che invece conteneva ogni presupposto per sconvolgere gli equilibri dettati dal puro e semplice appartenere alla casta dei chierici.
Senza volerlo e senza scandalizzarsi più di tanto, le sorti di un altro, più democratico Novecento si stavano giocando intorno a questi pregiudizi che obbedivano alla logica del rifiuto. Il dato non poteva sfuggire ad Hans Magnus Enzensberger, che in Questioni di dettaglio (1965) notava una immotivata e snobistica insofferenza da parte degli intellettuali verso il modo di agire dei parvenus. «I nostri autori avanzano implicitamente la pretesa che il diritto di viaggiare sia riservato solo a loro ed ai loro simili» scriveva. «Ed alla plebe si attribuisce la colpa di quei comfort in cui tutti, a buon conto, si servono senza esitare». Probabilmente ha ragione Paolo Frascani quando afferma che il miracolo economico, per come si è manifestato in Italia, è stato «un fatto prevalentemente privato».
Ciò non toglie, però, che sia mancato qualcosa nella cinghia di trasmissione attraverso cui è andata componendosi la narrazione di quegli anni e una sorta di insofferenza, suscitata dalla rapidità con cui tutto cambiava pelle, costringeva gli intellettuali ad arroccarsi su posizioni d’arcadia. Nel tranello ideologico caddero in molti e purtroppo nomi illustri: Bianciardi, Pasolini, Fortini, Eco, Sanguineti, Balestrini. Ma non basta domandarsi se fossero così fondati i loro timori nei confronti del Boom che avrebbe trasformato gli operai in consumatori. Bisognerebbe spingersi ancora più nel profondo, chiedersi perché da parte loro assumere a bersaglio la fabbrica, i consumi, la società di massa, l’influenza del mezzo televisivo, perfino il desiderio di abbandonare le campagne per fuggire verso le città? «Fra non molto, gli italiani vestiranno, penseranno, mangeranno, si divertiranno tutti alla stessa maniera, dettata e imposta dal video», avrebbe scritto uno scandalizzato Giorgio Bocca in una celebre inchiesta del 1962 (Miracolo all’italiana). Perciò continuava a non comprendere «l’ansia collettiva che spinge i contadini [langaroli] verso chi sa quale destino». La risposta, per quanto evidente, si trova nei commenti di Giunta: «Il piemontese Bocca avrebbe forse potuto tornare con la memoria ai racconti di Pavese e di Fenoglio: chi ha in mente le poche pagine disperate di Pioggia e la sposa fa meno fatica a comprendere la “frenesia” dei contadini stanchi del contado, e la loro ingenua fiducia nell’antico detto che l’aria delle città rende liberi».
Lorenzo Benadusi, Claudio Giunta, Elena Papadia (a cura di)
Effimero Novecento.
Il costume degli italiani
il Mulino, pagg. 366, € 28
Paolo Frascani
L’altro Novecento.
Società, economia e cultura
Laterza, pagg. 200, € 20