Maddalena Casadei e David Dolcini sono invece due esempi molto interessanti di designer attenti a come innervare il prodotto con richiami alla cultura artigiana. Casadei presenta una collezione per Artesanos Don Bosco mentre Dolcini mette in pista un sistema di quattro arredi per Porada.
Il nuovo design italiano è sotto la lente degli osservatori ed è chiaro che la sua identità sia sempre più ibrida e internazionale. Ne fanno parte progettisti che hanno scelto Milano per professione come accadde per George Sowden o Patricia Urquiola e Nathalie Du Pasquier, da tempo regine del nostro design. Tra i nuovi abitanti ci sono Keiji Takeuchi che presenta nuovi pezzi per DePadova o Philippe Tabet per Et al. La lista è lunga, a testimonianza di una certa ospitalità milanese che ha accolto designer da tutto il mondo. Caratteristica che inizia a vacillare per il costo della vita. Il primato è ancora saldo soltanto perché non ci sono città che possano garantire una filiera completa come quella di Milano.
Un recente libro dell’editore inglese Phaidon, Designed for life: the world’s best product designers mette in fila un centinaio di progettisti. Scarsa la rappresentanza di chi è nato in Italia. Schiacciante la percentuale dei designer che lavorano con aziende italiane. Quasi a dire che il viaggio in Italia e la permanenza nel Belpaese rimangono una costante. Essere designer non è soltanto una professione ma nel nostro Paese è un abito e un’abitudine.
Due iniziative mettono al centro questo atteggiamento. Zero e il colosso automotive KIA tornano al museo della Permanente per riflette sui rapporti tra arte, tecnologia e design con una cinque giorni di talk e installazioni che coinvolgono Sissel Tolaas, Riccardo Benassi, Andrea Lissoni e poi musica con Oliver Coates e Sherelle + Flowdan.
Mentre alla galleria Lorenzelli la mostra collettiva «La giacca del designer», a cura di Lorenzo Palmeri e Mario Scairato, è un monito per una comunità. Dieci designer interpretano attraverso dieci capi spalla come uniformi da lavoro la fibra di Tencel™, materiale geotessile usato per proteggere i ghiacciai dallo scioglimento. Qui il design è una missione che s’indossa, s’incarna, si vive tutto l’anno, come succede a Milano, dove il design è mestiere che s’insegna, si pratica e tramanda per portare l’Italia nel mondo.
Martedì inizia la 62° edizione del Salone Internazionale del Mobile di Milano. I padiglioni della fiera e la città diventano per una settimana l’epicentro di un’industria che celebra il Made in Italy e accoglie le eccellenze straniere. Investitori, espositori, studenti, giornalisti, delegazioni internazionali animano una piattaforma che non ha eguali. Si è trasformata per accogliere tutte le mutazioni di una disciplina che dall’arredo alla domotica, dai nuovi materiali alle più accurate dinamiche di servizio continua ad accompagnare i comportamenti dell’uomo prefigurandone gli stili di vita. È la principale manifestazione del Paese a essere occasione commerciale e culturale allo stesso tempo. Muove fatturati, indotti e immaginari che aderiscono alle qualità manifatturiere italiane e ne rappresentano gli orizzonti futuri. Tutto ciò sta avvenendo in una dinamica globale minacciata dallo scivoloso scenario internazionale e da modalità produttive extra europee che non mettono al centro qualità, rispetto di filiere e lavoratori ma soprattutto la durevolezza dei prodotti come primo elemento di sostenibilità ambientale.
Esattamente un mese fa grazie ai ministeri degli Esteri e della Cultura nelle sedi diplomatiche più strategiche si è festeggiato l’Italian Design Day, iniziativa che comunicava su larga scala valori e caratteristiche del design italiano. Diverse personalità hanno inaugurato la maratona di un intero comparto tessendo relazioni con tutti gli stakeholder internazionali.
A completare l’iniziativa Triennale Milano e ADI hanno inaugurato due importanti mostre in altrettanti centri nevralgici: la retrospettiva dedicata a Enzo Mari al Design Museum di Londra e la collettiva di giovani designer «Italy: a new collective landscape» al design center di Hong Kong.
Questa edizione del Salone del Mobile sarà la prima senza alcuni attori di primo piano recentemente scomparsi: Andrea Branzi, Diana Monsutti Moroso, Gaetano Pesce, Italo Rota – figure che hanno incarnato quei valori a cui non possiamo rinunciare. Sono la sfida culturale, la visione imprenditoriale, la scommessa dell’innovazione, il coraggio dell’unicità.
Negli ultimi trent’anni la Milano Design Week è diventata un sistema complesso che ruotava attorno a due pianeti ben distinti, la fiera e la città. Si erano divise le funzioni principali della manifestazione. Da tempo però questa divisione non è più così netta. Sebbene il Salone del Mobile detenga la regia complessiva dell’evento e sia la centrale del business portando avanti un tipo di ricerca più ancorata al prodotto, la città con il cosiddetto Fuorisalone (rete di distretti creativi, hub e quartieri) ha saputo imporsi offrendo un ventaglio di occasioni che hanno intercettato sperimentazioni multidisciplinari e varietà di proposte. Ad esse ha aggiunto un’ampia dose di intrattenimento a cavallo tra cultura, tecnologia con molte produzioni che ormai abitano musei, piazze e showroom.
Il rapporto di osmosi con la città, bacino di storie e luogo di scambio, rimane un tema fondamentale tanto che un’azienda come Kartell l’ha utilizzato come tema per far disegnare a Ferruccio Laviani il suo spazio in fiera. Duemila metri quadrati che della città ricalcano vivacità e skyline, visioni e tradizioni. Milano non è una quinta ma un laboratorio di idee e stili di vita pronti a farsi prodotto. Sulla stessa lunghezza d’onda le principali iniziative culturali del Salone: un’installazione di David Lynch curata da Antonio Monda dove il maestro del cinema americano fa risuonare le atmosfere domestiche dei suoi interni in un luogo di meraviglia e riflessione; la mostra in Triennale Milano che racconta il Salone Satellite, fucina di giovani talenti poi assorbiti dalle imprese inventata da Marva Griffin Wilshire venticinque anni fa. Il Salone presenterà le novità dei settori cucina e arredo bagno. Qui i nomi da tenere d’occhio sono Odo Fioravanti per Alpi Rubinetterie con un progetto sul rapporto tra acqua e luce e Giacomo Moor per QuadroDesign.
La settimana milanese è fatta di binomi creativi dove il coraggio di un imprenditore sposa la creatività di un progettista. I commentatori e gli addetti ai lavori navigano in lungo e in largo le navate della fiera e le strade della città per scovare talenti e trovare conferme. Le nuove generazioni oggi hanno assunto ruoli strategici e finalmente siedono nelle cabine di regia delle direzioni artistiche. Studio Klass (Marco Maturo e Alessio Roscini) guidano la rotta di Unifor; David Quincoces Lopez e Francesco Meda fanno lo stesso per Acerbis e Alias; l’agenzia Mr. Lawrence di Francesco Mainardi immagina Emu mentre Federica Biasi apre nuove strade per Gervasoni. Sono esempi di come under quaranta possano dimostrare intuizioni felici nell’intraprendere nuovi percorsi per aziende di lungo corso.
Poi c’è la logica della collaborazione che è un’altra caratteristica vincente del design italiano, non solo per il già citato rapporto tra creativi e imprenditori ma perché alcune delle firme più interessanti del nostro design sono appunto coppie in cui si pratica una dialettica efficace. Alcuni esempi: Calvi Brambilla per Zanotta e Varaschin; GamFratesi per Porro, Alpi e Minotti; gli Zaven per Bitossi; Spalvieri e Del Ciotto per Scavolini.
Maddalena Casadei e David Dolcini sono invece due esempi molto interessanti di designer attenti a come innervare il prodotto con richiami alla cultura artigiana. Casadei presenta una collezione per Artesanos Don Bosco mentre Dolcini mette in pista un sistema di quattro arredi per Porada.
Il nuovo design italiano è sotto la lente degli osservatori ed è chiaro che la sua identità sia sempre più ibrida e internazionale. Ne fanno parte progettisti che hanno scelto Milano per professione come accadde per George Sowden o Patricia Urquiola e Nathalie Du Pasquier, da tempo regine del nostro design. Tra i nuovi abitanti ci sono Keiji Takeuchi che presenta nuovi pezzi per DePadova o Philippe Tabet per Et al. La lista è lunga, a testimonianza di una certa ospitalità milanese che ha accolto designer da tutto il mondo. Caratteristica che inizia a vacillare per il costo della vita. Il primato è ancora saldo soltanto perché non ci sono città che possano garantire una filiera completa come quella di Milano.
Un recente libro dell’editore inglese Phaidon, Designed for life: the world’s best product designers mette in fila un centinaio di progettisti. Scarsa la rappresentanza di chi è nato in Italia. Schiacciante la percentuale dei designer che lavorano con aziende italiane. Quasi a dire che il viaggio in Italia e la permanenza nel Belpaese rimangono una costante. Essere designer non è soltanto una professione ma nel nostro Paese è un abito e un’abitudine.
Due iniziative mettono al centro questo atteggiamento. Zero e il colosso automotive KIA tornano al museo della Permanente per riflette sui rapporti tra arte, tecnologia e design con una cinque giorni di talk e installazioni che coinvolgono Sissel Tolaas, Riccardo Benassi, Andrea Lissoni e poi musica con Oliver Coates e Sherelle + Flowdan.
Mentre alla galleria Lorenzelli la mostra collettiva «La giacca del designer», a cura di Lorenzo Palmeri e Mario Scairato, è un monito per una comunità. Dieci designer interpretano attraverso dieci capi spalla come uniformi da lavoro la fibra di Tencel™, materiale geotessile usato per proteggere i ghiacciai dallo scioglimento. Qui il design è una missione che s’indossa, s’incarna, si vive tutto l’anno, come succede a Milano, dove il design è mestiere che s’insegna, si pratica e tramanda per portare l’Italia nel mondo.
Direttore Museo del Design Italiano Triennale Milano