Sono due i maggiori paradossi che avvolgono la già divenuta problematica leadership di Elly Schlein. Il primo è evidente sin dall’origine della sua elezione: si trova a dirigere un partito i cui membri non l’hanno votata. Impensabile ai tempi gloriosi del Pci, dove la forza simbolica del segretario del partito era assicurata da una piena investitura interna. La bizzarra procedura delle primarie consente, infatti, a chi non è iscritto di esprimere il proprio voto sulla direzione di un partito di cui non fa parte. Sarebbe come fare votare in una assemblea condominiale la decisione di fare o meno importanti lavori di ristrutturazione a qualcuno che non vi abita. È, dunque, la sua una segreteria per procura di un popolo ideologicamente di sinistra che però non si riconosceva più nelle politiche del Pd e che con un colpo di mano, statutariamente del tutto legittimo, ha capovolto le decisioni prese dai suoi membri effettivi.
La situazione che Schlein ha dunque dovuto fronteggiare è quella che nella pragmatica clinica della comunicazione si chiama “doppio legame”: il tuo compito è quello di dirigere un partito che però, nei suoi membri a pieno titolo, non si riconosce nella tua leadership. Posizione insostenibile per chiunque. Per Bateson, al quale si deve il concetto di “doppio legame”, è l’anticamera della psicosi.
Il secondo paradosso riguarda invece uno strabismo di fondo che sembra aver colpito fatalmente la nuova segretaria. Non può passare sotto silenzio, a questo proposito, il recente ritorno in seno al Pd degli ex-frondisti interni poi emigrati in Articolo 1 o sparpagliatesi nella galassia più rarefatta della “sinistra sinistra”. Questo strabismo consiste in una divisione che pare insanabile: da una parte Elly Schlein incarna generazionalmente un vento nuovo, una promessa di rinnovamento, lo slancio fertile del desiderio, ma, dall’altra, le sue scelte politiche si traducono nel recupero conservatore di figure e temi che appartengono ad una sinistra pre-renziana che ovviamente identifica in Renzi una malattia infettiva del partito che occorre debellare anche nelle sue sempre possibili recidive. Come se allora, cioè prima di Renzi, il Pd navigasse in acque serene e elettoralmente gratificanti. Un minimo di memoria storica segnalerebbe invece la sconfitta, non elettorale ma politica, di un candidato dato per vincente alle elezioni del 2013 (Bersani) con la conseguente irreversibile crisi comatosa del partito. Anche in questo caso il significante “Renzi” copre in realtà problemi di sostanza che travalicano di gran lunga la sua persona poiché riguardano l’identità stessa della sinistra italiana. Quali? Fissiamone almeno uno, ovvero l’esistenza inconciliabile all’interno del Pd di un’anima riformista e di un’anima massimalista. Si tratta di una inconciliabilità profonda, non solo strettamente politica, ma anche più ampiamente culturale. Con una complicazione ulteriore che indebolisce oggettivamente l’azione della segretaria. Nel nostro tempo il massimalismo si è infatti sposato con il populismo che ha trovato nel M5S la sua manifestazione politica più compatta e significativa. L’espressione “campo largo” sintetizza di fatto la convergenza ideale di massimalismo e populismo. Con la differenza che l’azione di Conte è più libera perché non è zavorrata da nessun contrappeso interno (la melanconica uscita di scena di Di Maio ha reso il movimento più forte e omogeneo). Ma Di Maio non sta a Conte come Renzi sta a Schlein. Perché Renzi non è solo il nome di una persona politicamente sconfitta, ma il titolo di un tema il cui svolgimento risulta assai complicato. Si tratta, infatti, di interrogare la doppia anima del Pd. Non si può purificare il Pd dal riformismo perché quest’anima gli appartiene. Lo stesso Renzi con la fondazione di Italia viva ha sottovalutato il peso di questa appartenenza. Molti dei suoi non lo hanno seguito perché giustamente ritengono che la casa del riformismo di sinistra in Italia continui ad essere quella del Pd. È il significato più profondo della candidatura di Bonaccini alla segreteria del partito che, non a caso, avrebbe vinto se a votare fossero stati solo gli iscritti. Lo strabismo di Schlein denuncia dunque l’impossibilità di giungere ad una ricomposizione della doppia anima del Pd e, più in generale della sinistra italiana. Sarebbe come provare a ricomporre una coppia che ha fatto dell’incomprensione e del litigio perpetuo la sua sola possibilità di sopravvivenza. È quello che Vittorio Cigoli definiva clinicamente “legame disperante”: “non possiamo stare insieme, ma non possiamo nemmeno separarci! “. Il riformismo di sinistra dovrebbe avere una casa propria che se non è il Pd di Schlein non può però essere nemmeno Azione o Italia viva, i quali hanno mostrato tutti i loro limiti facendo rapidamente naufragare il progetto di un nuovo partito riformista unitario. I legami disperanti sono di fatto legami tossici: fintanto che il nodo gordiano della incompatibilità tra massimalismo e riformismo non verrà sciolto (o tagliato…) il Pd continuerà per un verso ad essere subalterno al M5S e, per un altro, a essere lentamente eroso da quello che resta del Terzo polo.