Nell’occasione dei duecentocinquanta anni dalla nascita di Caspar David Friedrich, la Nationalgalerie di Berlino, il museo che conserva il maggior numero di quadri dell’artista seguito a ruota dalla Kunsthalle di Amburgo e dall’Albertinum di Dresda, ha realizzato anche con la loro fondamentale collaborazione la sua prima mostra monografica su un artista cui è legata l’identità di questa eccezionale raccolta dell’arte tedesca del XIX secolo. Pensando a quanto sia difficile movimentare le opere di Friedrich, si rimane davvero stupefatti di fronte a oltre sessanta dipinti, tra cui capolavori iconici come Il mare di ghiaccio e Le bianche scogliere di Rügen, che sfilano davanti ai nostri occhi alternati ad una cinquantina di disegni, fondamentali per capire il modo di procedere di un artista, dalla solitaria grandezza, che appartiene alla schiera di quei pochi che non hanno avuto precedenti, in quanto ha saputo reinventare un genere, allora considerato minore come il paesaggio, facendone un riflesso della nostra interiorità.
Nato nel 1754, egli ha assistito a rivolgimenti epocali, che nella sua genialità ha interpretato a suo modo, elaborando una nuova concezione della natura, consegnata a una bellezza senza tempo e trasfigurata in una sublime grandezza.
La sua popolarità, da quando venne riscoperto agli inizi del secolo scorso, è andata sempre crescendo e ora, come dimostra il numero di visitatori accorsi a Berlino, continua a incantare un vasto pubblico di cui riesce a catturare – e qui sta il suo segreto, la sua unicità – non solo l’occhio, ma anche la mente e il cuore, facendolo inoltrare lungo i sentieri dell’infinito, e riflettere sul significato dell’umana esistenza. Ma questi «paesaggi dell’infinito», com’è icasticamente intitolata la mostra, vengono ora rivelati, proprio dalla presenza di numerosi disegni che sono il versante meno noto della sua arte, nel loro procedimento creativo. Friedrich andava alla scoperta della natura, inoltrandosi in spazi incontaminati e studiandola en plein air in ogni suo minimo dettaglio: alberi e rami, le rocce, le onde del mare e le nuvole. Poi si chiudeva nella più assoluta solitudine del suo piccolo studio dove è stato ritratto dall’amico Kersting, in due dipinti che ci sorprendono perché ci fanno entrare nell’intimità di un luogo spoglio e silenzioso come una cella monacale. Non voleva che nessuno entrasse e potesse sorprenderlo intento a dipingere seduto davanti a una finestra o in piedi mentre osserva un po’ da lontano il proprio lavoro. Qui si ritrovava con sé stesso a riflettere sul significato di quella che ora, trasposta sulla tela, era diventata una pura visione interiore. In lui il “vedere” assumeva così una funzione tutta introspettiva, come lui stesso ebbe a dichiarare nei suoi scritti rivelatori, dove sostiene che «l’uomo, l’artista non ha altra risposta che il proprio spirituale», oppure che «il pittore non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé».
Questa convinzione spiega una caratteristica tipica dei suoi quadri e che aumenta il loro fascino, il senso di mistero che emanano. Quando infatti inserisce nei suoi paesaggi, per lo più solitari, delle figure umane queste sono viste di spalle.
Non si tratta di un semplice espediente per animare la rappresentazione o una indicazione topografica per il riguardante, ma un modo geniale per coinvolgerci, invitandoci a identificarci in quei viandanti che scrutano con lo sguardo le profondità dello spazio, l’infinito in cui l’uomo romantico naufraga spesso contemplando proprio il mare. Oppure rimangono turbati – e il loro essere collocati di spalle è tanto più efficace perché siamo noi a intuire la loro commozione – davanti alla struggente bellezza di uno spettacolo naturale, che sia il tramonto o un’alba, un plenilunio o addirittura un’aurora boreale. Questo inserimento della figura del viandante non è casuale, ma trova un riferimento nell’iconografia cristiana dove simboleggia la transitorietà dell’esistenza terrena e l’appartenenza dell’uomo a una sfera sovrannaturale. Friedrich, come i suoi viandanti, era sempre alla ricerca del divino, che dichiara essere «dovunque, anche in un granello di sabbia».
Spesso questa religiosità diventa dominante. Già a partire dalla sua opera d’esordio, quella Croce sulla montagna concepita e incorniciata come una pala d’altare destinata a suscitare scandalo alla sua comparsa, inserisce spesso a dominare i suoi paesaggi questo simbolo cristiano.
Altrimenti ritroviamo, come una apparizione in mezzo a una foresta di abeti giganteschi che bucano il cielo, le guglie svettanti di chiese gotiche viste come misteriose architetture sognate o come rovine. Lui, che contrariamente alla maggior parte dei pittori che praticavano il suo genere, non ha mai messo piede in Italia, rompe così con la tradizione del paesaggio ideale dominato dalla presenza dei resti dell’antichità pagana e dallo splendore solare della natura mediterranea così diversa dalle atmosfere angosciose delle sue montagne, delle sue selve oscure, con gli alberi contorti, che affascinarono addirittura Walt Disney il quale vi si ispirerà per Biancaneve, delle spiagge paludose e delle scogliere a strapiombo su un mare senza luce.
La sua opera più singolare e inquietante è Il mare di ghiaccio, un paesaggio davvero unico di cui non aveva potuto avere esperienza diretta in quanto si riferisce al fallimento della spedizione al Polo Nord delle navi Hecla e Griper, naufragate in una natura terribile e ostile davanti alla quale l’uomo è ormai impotente e senza scampo.
Caspar David Friedrich. Infinite Lanscapes
Berlino,
Nationalgalerie
Fino al 4 agosto