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Nel 1944 Richard Strauss inizia la stesura di un brano musicale diverso da ogni altro: si intitola Metamorphosen ed è una lunga, ispiratissima elegia per ventitré strumenti ad arco sopra la civiltà musicale germanica i cui santuari cadono, uno dopo l’altro, sotto le bombe della RAF: un epicedio su un panorama di rovine. Nell’ultima pagina, quando ogni canto si estingue nella rammemorazione di ciò che fu, Strauss cita un tema (proposto da tre violoncelli e tre contrabbassi) della Sinfonia Eroica di Beethoven, l’attacco della Marcia Funebre. Quell’erma spettrale, stagliata sopra le rovine, è anch’essa una rovina tratta fuori dalla storia per testimoniarne il lutto e la distanza. Ma Strauss fa di più: in partitura, sotto il tema beethoveniano verga due parole decisive: “In memoriam”. La rovina è accompagnata da un’iscrizione che ne specifica il senso dissigillando il presente. Allo stesso modo, nell’antica civiltà mesopotamica, sotto i grandi edifici destinati alla rovina venivano sepolti i temenu, mattoni recanti un’iscrizione dedicatoria che a distanza di secoli, se decodificata, fungeva da arra della tradizione e da parola viva e attuale.
A questo tema, l’indagine su ciò che può dirsi maceria o frammento o rudere o detrito o spoglia o vestigio, Alain Schnapp ha dedicato un libro di enorme importanza per vastità della ricerca, meticolosità e forza sintetica, uscito in Francia per Seuil e ora tradotto per Einaudi come Storia universale delle rovine. Dalle origini alla civiltà dei Lumi: quasi mille pagine in ottavo dove la parola decisiva è “universale”, poiché con il tema delle rovine ogni cultura si è misurata. In ogni epoca e in ogni dove l’uomo si è confrontato col destino perituro di tutte le cose, al quale provvedono la punizione divina ovvero la catastrofe naturale, l’erosione lenta del tempo ovvero il passaggio degli eserciti e il sacco. «Alles was ist, endet», vaticina Erda nell’Oro del Reno. Di questa evidenza le rovine sono marcatori, segnavìa, strumenti di interrogazione: sono interrogate e a loro volta ci interrogano.
Per tutta la storia le rovine possono essere contemplate, negate, sfidate, venerate, studiate, interpretate: ma sono lì, sempre. Parlando del Theatrum vitae humanae di Vredeman, 1577, serie di incisioni dove la struttura a cicli delle civiltà rispecchia la stessa scansione della vita individuale, Schnapp riassume: «Nel suo Theatrum, la rovina è una delle condizioni dell’esistenza, una sorte a cui né gli esseri viventi né le cose possono sfuggire». La rovina è dunque l’insegna paradigmatica cui lo storico applica il metodo comparativo, viaggiando nei secoli e lungo le latitudini alla ricerca di una formulazione universale, che alla fine viene riconosciuta nella trattazione del tema da parte degli illuministi e in particolare di Diderot, la cui genialità è «quella di prendere atto della tensione esistente tra la rovina come fenomeno culturale e la rovina come fenomeno naturale, e di darne una definizione».
Proprio nel secolo che prelude all’Encyclopédie le rovine entrano nella pratica artistica con una quantità di soluzioni tali da necessitare una rielaborazione teorica unitaria.
Claude Lorrain ne fa un attributo essenziale del paesaggio. Poussin ne medica la decrepitezza per mostrare l’idea pura e permanente della forma immateriale. Per tutta l’Europa, e soprattutto nel mondo inglese, la rovina entra come elemento posticcio nei giardini, ma già all’inizio del Seicento Bernini edificava a Palazzo Barberini un ponte “ruinante”, falso vestigio dell’antichità. La rovina agisce come elemento di nobilitazione del presente, lo carica del prestigio derivante dalla distanza secolare e dalla natura augusta delle costruzioni del passato. Nel 1796 il più celebre pittore di capricci paesistici svolti intorno alle rovine, Hubert Robert (che di Diderot era amico e corrispondente), nella sua qualità di conservatore del Louvre espone due opere al Salon: in una presenta il progetto della “grande galleria” del museo, non dissimile da quella attuale; nell’altra immagina la stessa “grande galleria” come sarà dopo secoli e secoli, rovina di sé stessa.
La rovina è un viadotto che conduce non solo al passato, ma al futuro, quando ogni cosa sarà, di nuovo, rovina.
Di quello stato dell’essere, Schnapp sviluppa una fenomenologia inesauribile, che da un lato raccoglie le tracce della rovina dall’Egitto al Medioevo cristiano, dalla Cina millenaria alla Roma barocca, dai megaliti britannici al Sudamerica non ancora colonizzato, e dall’altro ne descrive con infinita pazienza forme e funzioni: il suo testo è un catalogo ma è pure un’inchiesta critica su un’idea con la quale ogni individuo e ogni cultura si sono cimentati: il memento mori, la lotta intrapresa contro l’erosione della memoria, la vertigine della finitezza e di ciò che provvisoriamente la elude, il quesito, di cui simbolo precipuo resta l’addomesticamento delle rovine romane da parte del mondo cristiano, su come reinterpretare e ridefinire le spoglie del passato, mutandole di segno.
Ma il suo libro è anche narrazione, regesto di storie intorno alla Storia, e spesso le immagini evocate hanno un potere di fascinazione persino superiore alla sintesi filosofica, per esempio quando ci è mostrato Andrea Mantegna in gita sul lago di Garda, il 23 settembre 1464, insieme con gli amici e con Felice Feliciano che ne ha lasciato il resoconto, per «contemplare con tanto ardore numerose vestigia dell’antichità»; o quando seguiamo la vita di Li Qingzhao, poetessa nella Cina del XII secolo, custode di un’immensa collezione antiquaria raccolta con il marito, vittima poi di una spoliazione sistematica e beffarda, disperante ma pure consolatoria: alla fine la rovina che sopravvive alle rovine disperse non è altro che il ricordo, custodito nel sacrario interiore.
Partecipe di una dimensione geografica e architettonica (l’indagine sul territorio, l’evidenza della pietra) e di una poetica ed emotiva (la parola «più dura del ferro» che reinterpreta la spoglia materiale), la rovina può essere la maestà della piramide ma anche il labile segno, non ancora cancellato dal vento, che il passaggio della donna desiderata lascia sul crinale della duna nel deserto, come nelle sublimi liriche della civiltà araba preislamica citate da Schnapp. La sua trasmissione passa per i monumenti del Foro romano ma anche attraverso l’assenza, l’impronta del piede di Buddha, le vestigia fragili e trascurate sulle quali si china Thomas Browne, gli infiniti oggetti che l’avvertimento del tempo fa agire come semiofori, portatori di significati. L’immagine più commovente resta quella raccontata da Chateaubriand quando rievoca i popoli dell’Orinoco che non esistono più, che nulla può riportare in vita, ma la cui memoria è trasmessa da una decina delle loro parole altrimenti estinte, «pronunciate sulle cime degli alberi dai pappagalli tornati in libertà».
Alain Schnapp
Storia universale delle rovine. Dalle origini alla civiltà dei Lumi
Einaudi, pagg. 936, € 120