«Non accetto lezioni da chi ha venduto la Fiat ai francesi e ha portato la sede legale della società all’estero», è stata la reazione di Meloni lunedì in un’intervista televisiva con Nicola Porro su Retequattro. Ora, a parte il fatto che non è così, o non è esattamente così, la presidente del consiglio forse dovrebbe chiedersi perché, tra le 13 imprese italiane che si sono spostate fuori dai confini nazionali, scegliendo ad esempio l’Olanda che offre una legislazione e una fiscalità più favorevoli, ci siano l’Eni, cioè la più importante società a controllo pubblico, e l’Enel, la maggiore azienda nel settore dell’energia elettrica. Inoltre il problema non è rappresentato soltanto da chi trasloca, ma da chi, straniero, rinuncia ad affari invitanti, pur essendo portato ad investire in Italia, perché non si fida del funzionamento della giustizia, della labilità delle leggi che cambiano continuamente, delle condizioni del credito e soprattutto delle promesse dei governi, non esclusivamente quello di Meloni, che sono pronti a impegnarsi sul terreno delle normali relazioni industriali, ma poi con la stessa prontezza non fanno seguire alle parole i fatti.
L’ultimo serio intervento di politica industriale, messo in pratica, non declamato da un governo, è “Industria 4.0” realizzato da Gentiloni premier. Chiedere a Confindustria per avere conferme. Da allora in poi, chiusa la stagione anomala di sussidi legata all’emergenza Covid, il governo di destra-centro guidato dalla leader di Fratelli d’Italia ha scelto legittimamente di aumentare l’indebitamento, già più che consistente dell’Italia, per tagliare le tasse ai piccoli e medi imprenditori a partita Iva e trovare il modo di dare un aiuto corrispondente in busta paga ai dipendenti con redditi analoghi. Vale a dire difendere le fasce sociali più vicine al proprio elettorato. Poi, pur avendo annunciato il piano di privatizzazioni, legittimamente, va ripetuto, s’è accinto a commissariare, in vista di nazionalizzarla, l’Ilva di Taranto, il cui disastro, che si trascina da anni, con una brusca inversione di rotta verrà presto caricato sulle spalle dei contribuenti.
Sarebbe interessante discutere di questo con Meloni. Ma non è possibile. La premier, oltre ad aver deciso di prendersela con Stellantis – un gruppo, le ha ricordato l’amministratore delegato Tavares, che dà lavoro direttamente a 40 mila persone, senza calcolare le forniture dell’indotto – ha cominciato una sua personale crociata contro giornali e giornalisti. Intendiamoci, i rapporti tra capi di governo e media non sono mai stati idilliaci, né qui né altrove. Non possono né devono esserlo, dato che i giornalisti per mestiere devono pubblicare anche le notizie scomode e i governanti cercano di evitarlo. In mezzo a questa dialettica, tuttavia, c’è sempre stato uno spazio di interlocuzione che in Italia da quasi un anno e mezzo è praticamente scomparso, se si esclude l’appuntamento rituale della conferenza stampa di fine anno a Palazzo Chigi o qualche incontro fugace durante missioni all’estero.
Per carità, anche questo è legittimo, non c’è nessuna legge che imponga al capo del governo di rispondere alle domande dei giornalisti. Ha già il suo da fare con il Parlamento e con le opposizioni. Ma il silenzio interrotto da una messe quotidiana di comunicati, via Instagram, Twitter o Tik-tok, su cui è impossibile obiettare o perfino chiedere un chiarimento, o da colloqui solo con interlocutori che si considerano fidati, a differenza di quelli a cui la porta è sempre chiusa in faccia, rappresenta un impoverimento del discorso pubblico. Questi atteggiamenti, di certo non destinati a cambiare, rispondono a un’idea del proprio ruolo che la premier, e talvolta anche qualche suo familiare, non si stancano di spiegare: il governo è in lotta. Sempre, dalla mattina alla sera. Meloni deve difendersi. Dalla sinistra, dai giornali, dai complotti che vengono orditi contro di lei anche in territorio amico. E per difendersi non può che attaccare, tutto e tutti. È quel che Meloni fa ormai ogni giorno, sottolineando le sue affermazioni più ruvide con una risata di scherno, un contrappunto che prima non aveva. Comportamenti del genere, va detto, sarebbero comprensibili, fino a un certo punto, per una leader di partito che deve affermarsi e superare le mille trappole di cui è disseminata la politica contemporanea. Assai meno lo sono per una premier che ha giurato sulla Costituzione nell’interesse di tutti gli italiani. Governare, si sa, è fare quel che si deve, non ciò che si vuole. E tra le cose che si devono fare c’è anche il compito di dialogare con chi la pensa diversamente.