TRA SCIENZA E MITO, LA CORSA ALLA LONGEVITÀ È UNO DEI DIBATTITI URGENTI DEL NOSTRO PRESENTE
24 Marzo 2024TORMENTI ED ESTASI NEGLI OCCHI DI FRANK AUERBACH
24 Marzo 2024
Annachiara Sacchi
Ditelo a un operaio in cassa integrazione di angosciarsi perché la sua auto scassata del 1999 inquina troppo e contribuisce al disastro ambientale. O a una mamma single e precaria di struggersi davanti agli scaffali del supermercato perché le banane non sono biologiche. E di preoccuparsi più delle guerre in corso che delle scarpe del figlio che cresce troppo in fretta, o di riflettere sugli scenari internazionali anziché pensare a come tirare avanti in una periferia urbana degradata. Riscaldamento terrestre, conflitti molto vicini a noi europei, mancanza di risorse per tutti. Sono problemi reali, drammatici, destinati a cambiare le nostre società e quello che pensavamo sarebbe stato il futuro. «Ma troppi intellettuali scelgono in modo narcisista di dire che tutto è finito». Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista nato a Buenos Aires nel 1953, ex guerrigliero guevarista dell’Erp (Ejército revolucionario del pueblo, ma sulla sua biografia torneremo più avanti), da più di trent’anni impegnato nei quartieri difficili di Parigi, dove vive, ha perso la pazienza, dice. Non vuole minimizzare le emergenze politiche globali, banalizzare l’Antropocene, sottovalutare la tragedia della guerra, e nemmeno dividere in categorie i disgraziati e i privilegiati. Ma non tollera più che certi esimi colleghi si facciano «profeti dell’apocalisse». Perché «il pessimismo è un lusso aristocratico e narcisista che i miei amici delle banlieue o delle comunità contadine sudamericane, giusto per fare un esempio, non possono permettersi». E questo «non significa essere ottimisti in modo ottuso, ma decidere di affrontare il presente cambiando paradigma». A «la Lettura», in un lungo colloquio, ha spiegato come.
Il presenteArringa contro «chi si crogiola nell’idea del “dopo di me il diluvio”». Benasayag continua: «Pessimismo significa dire: io sono unico, sto vivendo la fine dell’umanità, con me il mondo va a scomparire. Lo trovo un godimento pazzo e malsano». Certo, il momento non è dei più semplici: «Oggi è impossibile fare previsioni. Dopo vent’anni di ottimismo, quello che chiamiamo futuro lineare ha perso senso. Il tempo lineare è stato creato per l’uomo occidentale bianco, è un tempo teleologico, hegeliano-marxista, è il tempo dell’incompiutezza perché l’uomo deve completarlo. Questa, però, è solo una delle tante dimensioni del tempo. Carlo Rovelli lo spiega perfettamente». Obiezione: questo non toglie che viviamo un presente particolarmente complesso, ed è naturale preoccuparsene. «La realtà è questa, disgraziatamente la vediamo, anche se Platone diceva che il sole e la verità non sono osservabili direttamente. Ma siamo vivi». Ecco allora il punto centrale: «È possibile abitare il presente in modo diverso, come una realtà di gioia».
La genesi di una convinzioneLe teorie di Benasayag hanno origine negli anni Settanta in Argentina, in carcere, dove il giovane rivoluzionario viene torturato e rimane per quattro anni prima di rifugiarsi nel 1978 in Francia, Paese di origine di sua madre, ebrea, che da lì era scappata nel 1939. «Un giorno alcuni informatori ci fecero sapere che tutti i piani di fuga possibili erano finiti. Fu uno choc. Quando ne ebbi la conferma, mi presi qualche minuto per decidere cosa fare, cosa dire agli altri prigionieri. Riflettei: d’ora in poi la vita è questa. Poi, rivolgendomi ai miei compagni, spiegai: dobbiamo cambiare il senso del nostro quotidiano e accogliere il presente. È necessario rifiutare ogni pessimismo e catastrofismo per cambiare qui e ora questa vita». Lo psicoanalista, ateo — «il nodo di questa etica lo si può trovare nella dimensione religiosa o no, poco importa» — sottolinea un altro elemento del nostro orizzonte occidentale: «Il pensiero cartesiano, dell’uomo bianco colonialista padrone della natura, è finito, oggi noi dobbiamo capire che chi sa troppo dove va si perde, e accettare un certo margine di imprevedibilità, che non è ignoranza, ma umiltà gioiosa, non quella triste del vinto».
Speranza e solidarietàNé ottimista, né speranzoso, ma impegnato. È questo l’atteggiamento del filosofo che ha scritto testi importanti come L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2004) e Cette douce certitude du pire («Questa dolce certezza del peggio», 1991). «Se la speranza è immanente e non la promessa di un futuro lineare o di una ricompensa, la accolgo. Baruch Spinoza la inserisce nelle passioni tristi perché introduce il timore del futuro. Mentre per me speranza significa assumere le sfide della vita. E non è difficile: essere solidali, onesti, amare, è semplice, cosa che rifiutano invece gli innamorati dell’apocalisse. Il pessimismo, scriveva Gilles Deleuze, è sempre reazionario perché gli uomini tristi hanno bisogno del tiranno per giustificare il loro stato d’animo. Attenzione, io sono psicoanalista, e se un paziente è depresso non gli dico che è reazionario, ma penso che darsi al godimento della tristezza sia contrario alla vita». Lo stesso ragionamento Benasayag lo fa sul divertimento, inteso però à la Blaise Pascal, ovvero come una deviazione dalla realtà. «Il divertimento che la società propone è un inganno perché non protegge dagli orrori, ma priva della gioia di agire e di essere con gli altri».
Certezze e giovani generazioniSenza certezze e senza protezioni, senza divertirsi e senza immaginare un futuro «aperto», cosa può fare l’umanità? «In questo momento storico noi non possiamo pretendere sicurezza sociale, ambientale, alimentare. Se la pretendiamo, allora cadiamo nelle mani del tiranno che la promette in cambio di libertà. E allora dobbiamo assumere l’intranquillità (L’epoca dell’intranquillità, con Teodoro Cohen, è il libro più recente di Benasayag, uscito da Vita e Pensiero a fine 2023, ndr) cosa che gli irresponsabili profeti dell’apocalisse rifiutano perché facendolo dovrebbero lasciare un po’ da parte la loro presunzione e pesantezza, la loro certezza del peggio». È un discorso che ha a che fare con le nuove generazioni e non a caso Benasayag lo ha ribadito sabato 16 marzo a Milano in una sala del cinema Anteo, ospite al seminario di Rfl (Recovery for Life), rete di strutture di riabilitazione per minori e giovani adulti con disagio psicologico e relazionale. «Le minacce dell’oggi sono reali, ma cadere nella trappola della certezza che tutto andrà peggio è letale. Qualcuno chiederà: questo atteggiamento cambia il futuro? Non lo sappiamo. Ma smettiamola di terrorizzare i giovani costringendoli ad acquisire “competenze” utili. Ma utili a cosa? All’esoscheletro della macroeconomia? E intanto dimenticano arte e poesia. Dunque ai ragazzi dico: approfittate del presente, esploratene le possibilità, fate esperienze. E se arriva la catastrofe saprete come affrontarla».
Un salto nelle banlieueEntusiasmarsi non è chic, dice Benasayag. Chi non ha la faccia triste non è elegante. «Questi intellettuali del pessimismo mancano di rispetto a chi ogni giorno si sveglia per costruire la vita». Da oltre trent’anni Benasayag tiene laboratori sociali nelle banlieue di Parigi. Il suo collettivo, Malgré Tout, è impegnato anche in altri comuni, come Corbeil-Essonnes, «dove comanda la mafia e si registrano 107 nazionalità». Spiega il senso del suo lavoro: «Nelle banlieue c’è disperazione — non pessimismo elitario — ma anche voglia di vivere che si esprime in tanti modi diversi, come il poetry slam. Il mio non è ottimismo stupido, ma se certi intellettuali fossero venuti in banlieue con noi a sviluppare esperienze, a vedere con i loro occhi cosa succede e come si sta, forse avrebbero abbandonato le loro certezze, come quelli che nelle soirée che contano dicevano che Mosca era il paradiso… Noi umilmente accettiamo di scommettere su una controffensiva»: così si intitola il suo nuovo libro, Contre-offensive. Agir et résister dans la complexité che esce in Francia mercoledì 27 marzo da Le pommier, mentre venerdì 5 aprile arriva in Italia da Jaca Book ChatGPT non pensa (e il cervello neppure).
La verità di MileiLe risorse globali stanno finendo. Mancano acqua, cibo buono, terre non inondate. Da argentino, Benasayag conosce bene la questione: «Siamo troppi e l’unico a dirlo è il loco, il nuovo presidente Javier Milei, con la sua verità ultraliberista: non ci saranno scorte per tutti, soprattutto per i più deboli. Allora o continuiamo a vivere come maiali, o puntiamo a una sobrietà gioiosa. A una solidarietà e resistenza creative che cambino il modo di vivere e desiderare, per non confondere il benessere con il consumo. Dove la felicità è identificata con la condivisione anziché con il possesso, queste esperienze sono possibili: io ho visto la povertà che non è schiacciamento della vita; ho visto nelle favelas la gioia di chi non aveva nulla. Non voglio fare l’apologia della povertà, ma è possibile sperimentare un’altra esistenza».
Povertà e lotta di classeBisogna distinguere. Gli esperimenti virtuosi di alcune comunità mapuche e guaraní che Benasayag ha conosciuto e studiato — «mancano comfort e medicine, ma hanno trovato e sviluppato un’alternativa, una via più semplice» — e chi è povero, con pochi diritti, nelle nostre desolate periferie. Per i primi, ai margini della società anche geograficamente, paradossalmente è più facile costruire un futuro rispetto a chi è inserito nel sistema capitalistico occidentale e fatica a trovare uno stimolo per svegliarsi la mattina «diverso da quello di fare soldi e divertirsi». Questione centrale, quella della povertà, del bisogno di raggiungere standard promossi dai social, da un mondo virtuale-aspirazionale. «Per i potenti i miserabili sono troppi, li vedono oltrepassare i nostri confini, si preparano a respingerli. E a noi piccolo borghesi sta bene. Ci piace la nostra vita tutta sistemata, i nostri figli non devono insultare l’altro, la violenza è cattiva, e però abbiamo i poliziotti che sparano alle frontiere. La realtà è questa e allora dobbiamo metterci in mente di cambiare». Il filosofo fa un’osservazione precisa: la forbice sempre più larga che separa ricchi e poveri nelle nostre realtà europee crea sì instabilità sociale, ma di lotta di classe, di un progetto per rovesciare il sistema, «non c’è traccia»: «Assistiamo alla rivolta di chi non ha e alla repressione di chi ha. Per carità, tutto comprensibile da entrambe le parti, ma bisogna fare attenzione a giustificare la violenza». Le considerazioni di Benasayag si fanno sempre più amare: «I “disperati” oggi lottano per avere gli stessi privilegi dei ricchi. E quando i giovani spaccano le vetrine il sistema ride, perché ha vinto il consumismo. Noi volevamo un’alternativa al sistema, mentre oggi i giovani vogliono farne parte. Il problema è che quel modello non può contenere più nessuno».
Razzismi e buoni esempiI messicani dicono che servono 120 anni per immaginare un cambiamento significativo in qualunque società. Nelle banlieue di Parigi ci provano gli attivisti di Malgré Tout. «Quei luoghi non sono solo di criminalità e disperazione ma di gioia, dove il movimento dei Fratelli musulmani — che non sono tutti terroristi — cerca di dare punti di riferimento, di fare rete, proprio come i preti di strada. Ma i francesi, che sono fanatici della loro religione che è la laicità, adepti di una teocrazia laica, non riescono a capire che quei piccoli imam svolgono un grande lavoro. Si chiedono: l’islam è compatibile con la democrazia? Domanda mal posta che nasconde un razzismo xenofobo». Facessero un salto anche loro, dice il professore. «C’è degrado, ma ci sono anche tante luci». E allora si torna al discorso originario: come fa un poveretto che si sente solo al mondo a emozionarsi per le polveri sottili nell’aria o preoccuparsi per le elezioni vinte da Vladimir Putin? Benasayag ancora una volta distingue: «La mia esperienza in Sudamerica può raccontare punte di eccellenza, ricordare contadini che hanno sviluppato altri paradigmi incorporando il femminismo, i tempi dell’altro, la natura. Dentro diverse esperienze di occupazione di terre c’è anche una preoccupazione ecologica». Sono esempi isolati, eroici, soprattutto perché «i governi dei Paesi del Terzo mondo dicono sì al transgenico, la logica è “inquiniamo perché siamo poveri, lasciateci produrre in modo sporco”». Poi c’è casa nostra: «Che importa alle classi più deboli di inquinare? Chi deve sopravvivere ha altri pensieri. Ma dove si sperimentano stili di vita alternativi la differenza si vede. Anche nelle realtà a noi più vicine. È difficile, lo so. Ecco perché servono 120 anni per immaginare un nuovo paradigma. Ora però siamo davanti a un bivio. Diventa urgente, in questa molteplicità conflittuale, produrre altri modi di desiderare. E di vivere».
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