gianluca paolucci
Il via libera definitivo è arrivato martedì scorso, quando al Consiglio dei ministri il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha informato la premier Giorgia Meloni che tutto era pronto per vendere una quota importante di Mps mettendo la banca in mano a un nocciolo duro di azionisti italiani. Lunedì 4 novembre, a margine dell’Eurogruppo, il ministro Giorgetti aveva illustrato il medesimo piano a Christine Lagarde, la numero della Banca centrale europea. Proprio da Francoforte – e dal governatore di Bankitalia, Fabio Panetta -, nelle settimane scorse, era arrivata la richiesta di una soluzione che comprendesse tra gli investitori di Monte dei Paschi un soggetto bancario.
Con Banco Bpm nella compagine di azionisti che comprende l’asset manager Anima e due investitori di peso come Caltagirone e Delfin, anche i regolatori possono dirsi soddisfatti. La soluzione che si è palesata ieri arriva però al termine di un lavoro durato mesi, che ha coinvolto il ministro dell’Economia in prima persona e, da ultimo, anche Palazzo Chigi. E fa rumore tanto per i presenti quanto per gli assenti, perché può rappresentare il primo passaggio di un ridisegno degli equilibri della finanza italiana al tempo del governo di Giorgia Meloni.
Nel febbraio scorso, da Roma erano partiti accorati appelli verso la milanese piazza Meda, sede di Banco Bpm. Appelli ai quali l’ad del Banco, Giuseppe Castagna, ha risposto con fermezza che la strategia dell’istituto sarebbe rimasta quella di una crescita stand-alone, senza lanciarsi in dispendiose acquisizioni. A far cambiare idea al banchiere, che ha sempre rivendicato la sua distanza dalla politica malgrado Banco Bpm venga spesso avvicinato agli ambienti leghisti, è stato il timore che, dopo l’offensiva di Unicredit in Germania, qualcuno potesse avanzare delle mire proprio sul Banco, la cui compagine azionaria potrebbe non tenere di fronte a un’opa. Tant’è che la decisione di impegnarsi prendendo il 5% di Mps con il collocamento sarebbe arrivata solo negli ultimi giorni. Anche se ancora ieri, in una lettera ai dipendenti, Castagna ha ribadito che la strategia non è mutata, escludendo di fatto una fusione con Mps almeno in tempi brevi. Accanto al Banco c’è Anima. Il gestore di fondi sul quale proprio il Banco ha lanciato la settimana scorsa un’opa è da mesi in contatto con il Mef proprio per la questione Montepaschi. Per il gruppo guidato da Alessandro Melzi d’Eril, Mps rappresenta la seconda fonte di ricavi e l’accordo di distribuzione dei suoi prodotti con la rete della banca senese che scade nel 2030 è un tassello importante per le prospettive di crescita dell’asset manager. Melzi d’Eril aveva ottenuto da tempo le deleghe per partecipare al collocamento di Mps da perte del suo consiglio. L’opa di Bpm su Anima non muta lo scenario e anzi in qualche modo lo rafforza. Con Anima integrata in Bpm, Mps avrebbe potuto rivolgersi altrove per distribuire i fondi ai propri correntisti. Se Castagna si fermerà al 10% (la quota combinata di Banco più Anima), come ribadisce il banchiere in queste ore, o punterà a una fusione come crede unanime il mercato, è presto per dirlo. Di certo, per ora il terzo polo bancario – addirittura secondo per numero di sportelli, secondo i calcoli di Ubs – che l’esecutivo dice di voler costruire, assume un carattere più deciso.
Poi ci sono i due investitori privati. Per Caltagirone, il ritorno a Siena è un’ottima occasione di ulteriori guadagni. Al primo giro, nell’era di Giuseppe Mussari, non gli era andata benissimo. Ma va dato atto all’ingegnere che la sua era stata una delle poche voci critiche – anche sull’operazione Antonveneta – in un consiglio dominato dalla personalità del suo presidente. Il gruppo Caltagirone è poi azionista sia di Banco Bpm che di Anima, e con entrambi le partecipazioni sta realizzando ottime performance. Per Delfin, l’impegno nella partita senese rappresenta una prima volta e, si spiega, va letta nell’ottica dell’impegno del fondatore Leonardo Del Vecchio «al servizio del paese» e non solo come opportunità di business.
Infine, gli assenti. Fin dall’estate scorsa, Unipol era pronta a intervenire su Mps. Una quota fino al 10%, finalizzata ad arrivare a un accordo di distribuzione delle polizze assicurative del gruppo bolognese attraverso la rete di Siena. Una opportunità di crescita ulteriore per il gruppo guidato da Carlo Cimbri, già presente come «socio forte» in Bper e Popolare Sondrio. Mediobanca, storico alleato di Unipol dai tempi del riassetto di Fonsai, sarebbe stata ben lieta di dare il suo contributo. Ma su questo, malgrado il buon rapporto con Giorgetti che avrebbe visto di buon occhio l’operazione, il manager avrebbe incontrato l’opposizione di Palazzo Chigi. Difficile vendere al proprio elettorato l’aver messo la banca che fu chiamata «rossa» nelle mani della compagnia assicurativa che ha tra i suoi azionisti le coop rosse. E a rendere il tutto più indigesto, l’ombra di Mediobanca. L’istituto di piazzetta Cuccia, che ha rappresentato dal Dopoguerra in avanti il crocevia di tutta la finanza italiana, non è esattamente nelle grazie della maggioranza.
Non sfugge che tanto Caltagirone che Delfin sono impegnati fianco a fianco nella partita Mediobanca-Generali. Anche se gli interessati smentiscono che tra Siena e Trieste ci siano legami, l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, da ieri è probabilmente un po’ più preoccupato delle future mosse dei suoi due soci. In primavera c’è il rinnovo del board delle Generali, sul quale tre anni fa si consumò uno scontro durissimo proprio tra Mediobanca e l’asse dei soci privati. Adesso il quadro è cambiato, non solo per la legge Capitali, fortemente voluta da questa maggioranza e rivendicata dalla stessa Meloni in occasione della conferenza stampa di fine anno, lo scorso 4 gennaio, che impedirà di fatto la presentazione di una lista del cda. Ma anche perché è cambiato lo scenario e anche la finanza, al tempo di Giorgia, è più tricolore.