È apparso sul palco imbandierato di Palm Beach circondato dalla famiglia e davanti ai sostenitori in delirio senza un gesto di trionfo, semplicemente mostrandosi, come se la vittoria fosse qualcosa da riscuotere, scritta nel cielo e promessa all’America come “una nuova età dell’oro”. Lui, Donald Trump appena eletto 47° presidente degli Stati Uniti, è pronto non all’incarico, all’impegno, al servizio allo Stato, ma alla “missione”: “renderò l’America sicura nei confini, forte, prospera, potente e libera di nuovo, non inizierò guerre ma le fermerò, e chiedo a ogni cittadino in tutta la nostra terra di unirsi a me in questa impresa. Qualcuno mi ha detto che Dio mi ha risparmiato per un motivo: e ora manterrò le promesse”. Ma in realtà la resurrezione di Trump dopo la prima presidenza, la sconfitta nella sfida elettorale con Joe Biden, il rifiuto di accettare il verdetto delle urne, l’appoggio all’insurrezione e all’assalto al Campidoglio, la minaccia eversiva permanente è un evento meta-politico che verrà studiato negli anni, come il momento storico in cui si è avverata la grande metamorfosi culturale, politica, sociale degli Stati Uniti, un cambio d’epoca che ha un uomo come causa ed effetto: Donald Trump.
segue dalla prima paginaNon si tratta infatti soltanto della conquista della Casa Bianca per i prossimi quattro anni, un fatto di per sé già oltremodo significativo in una fase in cui il mondo ha smarrito il suo equilibrio, è attraversato da due guerre, vede risorgere in Europa la frattura storica tra Est e Ovest, ha perduto ogni criterio comune di valutazione del bene e del male, non crede più nella politica e nelle sue promesse, come se ogni leadership fosse prosciugata.
Trump che ritorna nello studio ovale senza mai aver ammesso la sconfitta chiude e consacra il cerchio populista del carisma perenne, dove il leader può essere ferito, tradito, ingannato e persino deposto, ma mai battuto perché la missione cui è chiamato lo trascende proteggendolo. Si tratta dunque di una ri-consacrazione, che nelle urne non solo ha riconosciuto, prescelto e reinsediato il suo leader, ma ha in qualche misura operato un mutamento nel profondo del Paese, cambiando il popolo. Lo ha rivelato lo stesso Trump nel discorso di Palm Beach: “Abbiamo superato ostacoli che sembravano impossibili, ed ora è chiaro che abbiamo fatto la cosa più incredibile. Questo è un movimento mai visto prima, questo è il più grande movimento della storia”.
Ecco dunque cos’è avvenuto sotto i nostri occhi negli ultimi anni.
Non soltanto è svanito il profilo del Grand Old Party, il vecchio partito repubblicano di Lincoln, Eisenhower, Reagan, Nixon e Bush, che nel succedersi dei leader e delle epoche conservava il mito della “casa sulla collina”, l’autoleggenda rassicurante della classe media protestante e conservatrice. Quella storia si è interrotta con una mutazione genetica, lasciandosi invadere dal trumpismo e facendosi conquistare dall’estremismo bianco, suprematista, isolazionista e populista. E oggi siamo al punto che anche il concetto di partito, sia pure come comitato elettorale più che come struttura permanente, è espulso dal lessico di Trump, perfettamente consapevole di aver creato, o almeno incoraggiato e sicuramente cavalcato un’altra cosa: il “movimento”, più pronto a modellarsi sulle caratteristiche della leadership, più adatto alla battaglia e alla rivoluzione delle èlite, soprattutto più conforme alla vera cifra dell’epoca, che è la ribellione permanente. Come risultato oggi abbiamo un movimento che ha dimostrato di poter diventare addirittura eversivo a comando, e un leader che il vecchio linguaggio europeo della politica definirebbe “extraparlamentare”, impersonificando il paradosso di un Capo capace di conquistare le istituzioni e di guidarle senza sentirsene parte, come se venisse costantemente dal mondo di fuori. Il congegno può essere esplosivo. Chi regolerà il contatto?
Noi, nella lontana Europa abbandonata dal “qui e ora” della geografia ristretta ed egoista di Trump, potremo solo assistere a questo esperimento: forse però possiamo almeno chiamare le cose con il loro nome. A noi contemporanei, generazioni cresciute nellapace e nella libertà garantite dalla democrazia, spetta oggi il privilegio ingrato di vedere la destra americana fuoruscire da se stessa, liberarsi dei vincoli della storia, per mostrarsi ed operare allo stato puro, potremmo dire quasi allo stato nascente, filtrata in semplice energia politica nata e coltivata nel territorio della società, quindi estranea alla piramide istituzionale della repubblica. Contro chi si dirigeranno quella leadership vittoriosa e quel movimento che cerca un luogo-simbolo dove esporre la bandiera della vittoria? Disinteressati all’idea di farsi Stato, mentre lo occupano fisicamente, probabilmente decideranno una nuova svolta, considerando ormai liquidata la competizione storica con la sinistra. Lo spirito di rivincita di Trump prepara e introduce questa novità, il superamento della contesa tra destra e sinistra, che si è sempre svolta sotto la cupola di protezione e di garanzia del sistema. Ma oggi siamo oltre: mentre il partito democratico si rinfaccia i suoi errori, clamorosi, la nuova destra si mangia il sistema, non si accontenta di guidarlo ma lo contesta e lo rifiuta, attenta a non farsi ingabbiare nei suoi labirinti procedurali. A questo punto c’è un unico fondale con cui fare i conti, l’ultimo scenario, l’anima del sistema: la democrazia.
Eccole faccia a faccia, la nuova destra trasformata in puro potere, e la democrazia indebolita, fiaccata, calunniata, dileggiata, in attesa delle prossime accuse, già pronte: burocratica, proibizionista, negativa, complessa, lenta, costosa, e soprattutto inefficace e improduttiva. Nessuno si aspetta da questa sconfessione un manifesto antidemocratico esplicito. Verrà proposta una variabile funzionale del meccanismo democratico tradizionale, una correzione automatica dell’equilibrio costituzionale del dopoguerra, per arrivare a un nuovo modello di democrazia che riscriva la gerarchia dei poteri, privilegiando la decisione, il comando, la sovranità, limitando i controlli e i bilanciamenti, sovraordinando il leader scelto dagli elettori, in nome della sua identificazione col popolo. Tutto il resto è Novecento, il secolo nuovo vuole altro, e la “missione” che il Dio della destra affida a Trump è esattamente la sostituzione del nucleo di significato della parola democrazia, che dopo il trapianto di senso può risuonare intatta, purché devitalizzata e svuotata.
Così l’America trumpiana può riprendere la guida del nuovo mondo, parlando sia ai democratici intermittenti e a bassa intensità che ai leader autoritari e agli autocrati, persino ai despoti, oltre che ai miliardari e ai “supergeni” come Elon Musk, invitati a invadere la politica con il loro futurismo tecnologico pronto a diventare ideologico, mettendo l’innovazione al servizio della semplificazione del governo. Alla fine, scarnificando la divisione dei poteri, rimarrà un’unica separazione in vigore: quella tra il comando e la democrazia, un divorzio che inseguendo la promessa dell’oro rischia di riportarci tutti all’età del ferro.