l’intervista
Azar Nafisi
Francesca Paci
Leggere pericolosamente, come s’intitola il suo ultimo libro pubblicato in Italia da Adelphi, è per la scrittrice Azar Nafisi sfogliare le pagine della Storia provando a decifrare l’inquietudine dei tempi. Tempi che oggi, ammette preparandosi a tornare in Italia per ricevere il premio Credit Agricole di Pordenonelegge, sono quantomai criptici, cupi, minacciosi. Sopratutto nell’Iran da cui manca da un quarto di secolo e di cui segue ogni palpito, le donne, i prigionieri politici, un popolo che non abbassa lo sguardo e non perché abbia paura dei missili israeliani.
Attaccare seriamente Israele per vendicare il leader di Hamas, non attaccare per guadagnare credito presso la comunità internazionale, minacciare l’escalation affinché gli israeliani vivano nel terrore o pianificare un’azione dimostrativa che risponda senza scatenare una guerra, come dopo il raid di aprile su Damasco: a che gioco sta giocando il regime di Teheran?
«La Repubblica islamica si trova in una posizione terribile. Da un lato deve tenere fede all’ambizione imperiale coltivata sin dal 1979, ossia quella di esportare la rivoluzione khomeinista pretendendo di rappresentare il mondo musulmano e sostenendo qualsiasi atto terroristico dalla Siria al Libano allo Yemen fino – novità degli ultimi due anni– all’Ucraina. Dall’altro lato c’è Israele. Il regime è in mezzo alla palude, deve alzare la voce ma ha paura di farlo perché sa di non essere in condizione di combattere una guerra. L’ultima volta, contro l’Iraq, Khomeini cavalcò il nazionalismo sfruttando il fatto che gli iraniani non avevano ancora ben capito la sua rivoluzione. Oggi è tutto un altro mondo, il popolo è consapevole che in ballo non c’è l’indipendenza del Paese ma la sopravvivenza del sistema teocratico, un sistema per altro ormai molto fragile dentro cui, ora dopo ora, si moltiplicano le defezioni degli ultimi riformisti».
Testa o croce: cosa accadrebbe se davvero la Repubblica Islamica rispondesse colpendo Israele. E che ne sarebbe invece della sua leadership regionale se non rispondesse?
«Tutto può succedere, compreso il colpo di testa che scatena la guerra: ma, comunque vada, l’esito non sarà favorevole per la Repubblica islamica. Se attacca, Israele, con Netanyahu che non aspetta altro, replicherà pesantemente. Se non attacca – e sarebbe la decisione più saggia – si mostrerà debole, non tanto all’esterno quanto all’interno, dove l’opposizione e il movimento delle donne sfidano da due anni le autorità senza piegare la testa alla repressione. Una delle barzellette più raccontate a Teheran è che alle riunioni per pianificare il raid contro Israele partecipa lo stesso Israele. Il regime si è infilato in un vicolo cieco».
Come stanno vivendo queste ore i suoi parenti, le ex studentesse, chi sostiene il movimento “donna, vita, libertà?
«Sono spaventati ma soprattutto disillusi. Ripetono che, come sempre, quando il regime è in difficoltà tira fuori dal cappello i riformisti, prima Mohammad Khatami, poi Hassan Rouhani, ora il “presidente” Masoud Pezeshkian. Tutti promettono cambiamenti e finiscono per reprimere qualsiasi forma di dissenso. L’occidente stava ancora vagheggiando il presunto aperturismo di Pezeshkian e lui già ordinava 21 esecuzioni, tutte in un giorno. C’è paura e amarezza in Iran, ma c’è anche la consapevolezza che stavolta, in caso di guerra, le critiche e le proteste non cesseranno perché il regime non rappresenta più nessuno. Prova ne sia che dopo le migliaia di arresti, pestaggi e assassini degli ultimi due anni le donne continuano imperterrite ad andare in giro senza velo».
I venti di guerra hanno dato nuovo vigore alla repressione, in strada e in carcere, dove la Nobel per la pace Narges Mohammadi è stata picchiata giorni fa. Il regime teme l’apertura di un fronte interno?
«Dovrebbe temerla, eccome. L’opposizione degli iraniani alla Repubblica islamica non è politica ma esistenziale e in quanto tale è invincibile sul lungo periodo. E più le persone prendono coscienza di questa loro forza più il regime prova la sua intima debolezza».
Dopo l’assassinio del leader di Hamas si è parlato di gruppi che potrebbero aver agevolato l’operazione dall’interno. Crede sia possibile?
«Onestamente non ne so granché, so però che il regime ha usato questo argomento come scusa per alzare la tensione e colpire le presunte spie. Gli ayatollah amano la guerra perché possono governare soltanto con il terrore, si dicono musulmani ma sono stalinisti della peggiore specie».
Cosa rappresenta per gli iraniani la causa palestinese, di cui gli ayatollah hanno raccolto la bandiera abusata finora opportunisticamente dai regimi arabi?
«La Repubblica islamica si dice protettrice dei palestinesi e millanta di supportarli finanziariamente mentre finanzia i terroristi di Hamas e di Hezbollah. Non posso parlare a nome di tutti gli iraniani ma gli amici con cui mi confronto sostengono che il regime abbia sottratto soldi al Paese per dirottarli sulla causa palestinese e non sono contenti. A mio giudizio il popolo palestinese e quello iraniano dovrebbero unirsi nell’ambizione alla libertà: loro annaspano schiacciati tra un governo israeliano sempre più di estrema destra e una leadership che pretende di rappresentarli seminando il terrore, noi fronteggiamo un regime fascistoide, antisemita e reazionario che usa la religione come lo stalinismo usava Marx».
La nomina a ministro degli esteri iraniano del “riformista” Abbas Araghchi è un segnale da leggere positivamente oppure è una foglia di fico che nulla cambia nella gerarchia del potere di Khamenei, come ha scritto su X l’ex ministro Javad Zarif?
«Zarif stesso è stato a sua volta una foglia di fico…tuttavia ammetto di essere d’accordo con lui. C’è di più però. Almeno una parte del regime vuole assolutamente relazionarsi con l’America e l’Occidente per uscire dall’isolamento delle sanzioni e fare soldi. Per questo ha bisogno di figure come Araghchi, i presunti negoziatori deputati a far pensare all’Occidente che ci sia un cambiamento in atto. Fake news. Appena eletto, il cosiddetto “presidente” Pezeshkian ha affermato chiaro e tondo di obbedire a Khamenei. Non sono ottimista ma ho speranza nella mia gente, le iraniane e gli iraniani che da due anni sfidano uno dei regimi più sanguinari del mondo senza armi e che lo hanno messo in difficoltà».
Quanto pesa nella sicurezza ostentata dalla Repubblica Islamica d’Iran la santa alleanza anti-occidentale con la Russia di Putin?
«Tantissimo. Il regime è naturalmente spinto verso il tipo di violenza che il presidente Putin usa contro il suo popolo, ha bisogno del sostegno di uno come lui. Infatti gli ha fornito i droni da usare in Ucraina prima ancora che li chiedesse».
S’immagina un’America di nuovo governata da Trump?
«È un incubo. Da dieci anni metto in guardia dal rischio totalitario che minaccia la democrazia e Trump rappresenta tutto quanto quel rischio incarna. Sono però fiduciosa, specie da quando ho visto come Kamala Harris, inattesa, è balzata sulla scena e come gli americani l’hanno accolta».