Prudente, conservatrice, opportunista: che Italia raccontano le tracce della prima prova
23 Giugno 2024What is intelligent life?
23 Giugno 2024“Alla fine ciò che importa è il contenuto di verità della menzogna”, così scrive Thomas Bernhard (1931-1989) in un punto nevralgico della sua “autobiografia” (raccolta di cinque romanzi che ripercorrono la sua infanzia: L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo e Un bambino). Ed è fuor di dubbio che questo scrittore, drammaturgo e poeta di lingua tedesca, nella costruzione finzionale che è la sua stratificata opera (opera che si dipana tra i primi racconti degli anni cinquanta fino al 1989, anno della morte), abbia indagato, fino allo sfinimento, la possibilità di dire la verità, almeno un po’ di verità sulla vita, sull’arte, sul mondo. Bernhard è stato uno dei massimi scrittori del secondo Novecento. Il suo particolarissimo stile ricorsivo, in cui le frasi vengono continuamente riprese per afferrare, attraverso un movimento spiraliforme, un qualche brandello di senso, si pone al confine tra la più grande letteratura e una modalità inedita del pensiero filosofico.
Tra i suoi punti di riferimento ci sono, infatti, i Saggi di Montaigne, quei “tentativi” (questo il significato più corretto del francese essais) per mezzo dei quali il filosofo d’oltralpe, nella solitudine del castello di Saint-Michel-de-Montaigne, inventava uno stile e un pensiero filosofico. Come anche ricorrente è l’apparizione, in diversi personaggi dei suoi romanzi, del conterraneo Ludwig Wittgenstein, il più spietato e radicale dei filosofi novecenteschi (esemplare la figura del suo alter ego Roithamer in Correzione). Se dal filosofo rinascimentale Bernhard riprende, oltre a un radicale scetticismo, il gusto per la ricerca di una frase, cioè la ricerca di quella concrezione sintattica di senso in cui il pensiero assume una leggibilità, dal secondo apprende il coraggio filosofico, necessario per approssimarsi a una verità che, per essere brevi, permetta all’autore di divenire un uomo decente all’interno di una società che non conosce la decenza, sommersa com’è dai luoghi comuni, dal conformismo ambientale e culturale, da un’onnipresente stupidità.
Memorabili sono le lunghe tirate, come quelle presenti nel suo capolavoro A colpi d’ascia, volte a smascherare le ipocrisie della società austriaca, pervasa di sentimenti meschini e incapace di liberarsi di quello spirito violento, intollerante e repressivo che il periodo nazionalsocialista non ha creato ma ha solo portato a espressione compiuta. Bernhard, pur non avendo mai assunto i panni dello scrittore impegnato, è stato il più politico degli scrittori della sua generazione, proprio perché ha mostrato il substrato disumano presente al cuore stesso dell’uomo sociale; lo ha denunciato in modo asettico, come un anatomopatologo descriverebbe i sintomi di una malattia. Ha saputo mostrare, grazie ai molti registri della sua scrittura – che vanno dall’analitico al lirico, passando attraverso il comico e il grottesco –, il lato mostruoso, il fascismo archetipico, che è racchiuso dentro ognuno di noi.
Bernhard potrebbe sembrare uno scrittore senza pietà, davvero spietato, quasi cinico, e che non risparmia niente e nessuno. Non salva nessuno, in effetti. Nessuno è al riparo, nemmeno gli artisti e le loro opere. In Antichi Maestri denuncia, senza giri di parole, la miseria dell’arte, anche la più grande. Si pone alla ricerca dell’errore, del compromesso, del piccolo interesse, dei narcisismi che sono nascosti, in realtà ben visibili, in ogni grande capolavoro. Davvero nessuno è esente dall’umana piccineria.
In fondo, quella di Bernhard è un’umanità di soccombenti – così titola (Il soccombente) un altro romanzo i cui protagonisti sono Glenn Gould e il suo amico Wertheimer, trafitto e distrutto dal genio del primo. Non lontana dal musicista schiacciato dall’ombra del genio, e non meno grande, è la figura di Paul, Il nipote di Wittgenstein, amico di Thomas che sprofonda nella pazzia, in una pazzia che si confonde con la più alta razionalità. Si tratta di uomini che soffrono, per così dire, di un eccesso di lucidità, di una sensibilità troppo acuta; uomini che pensano troppo e che sono abitati da un trauma mai superato perché impossibile da afferrare. Tutti sono alla ricerca di un’origine, ma questa origine non è mai dietro di loro, non è mai sepolta nel passato, dalle macerie del tempo, ma sempre davanti a loro, proiettata nell’istante a venire. In un certo senso, l’origine è sempre celata nel presente, nell’istante che fugge e che impone di ricominciare sempre di nuovo la sua ricerca. Di qui lo stile unico, benché ampiamente imitato, di Bernhard, la sua frase interminabile, l’ossessività martellante, il rincorrersi dei pensieri, così tipici e inconfondibili.
Si narra che Bernhard – anzi, se non erro, è lui stesso a scriverlo da qualche parte – componesse una frase per ogni foglio, alla ricerca non tanto della frase perfetta, ma di un frammento a sé stante, quasi che ogni frase fosse chiamata a contenere il tutto, pur nell’impossibilità di afferrarlo, di rappresentarlo. Ed è, in fondo, proprio così che Bernhard andrebbe letto, concentrandosi su ogni singola frase, abbandonando l’idea che vi sia una frase finale, un senso finale, una fine, lieta o tragica che sia. Non si dà fine, si dà solo continua ripresa, tentativi ulteriori, nuovi fogli bianchi da riempire.
I protagonisti e le figure secondarie dei romanzi di Bernhard non divengono ciò che sono, secondo un adagio nietzscheano, ma sono ciò che divengono, uomini e donne che riscrivono infinitamente la propria identità nell’impossibilità di fissarla. Solo il morto, il volto del cadavere, il suo silenzio mostrano un’identità. I viventi sono alla sua ricerca o, meglio, scrivono, descrivono, inscrivono e ex-scrivono la “propria” identità nel libro della vita: la ricercano nel fraseggio dell’esistenza.
Vivere consiste nella decisione che espone, che ci espone, al respiro della frase, al suo ritmo, alla sua oscillazione, dal primo vagito fino al rantolo finale, quello senza ritorno, senza a capo. La vita è in fondo una frase sempre ripresa, ma non infinita: una frase destinata a interrompersi. Bernhard lo dice chiaramente, la scelta di scrivere derivò, all’epoca del suo ricovero in un ospedale per malati di tubercolosi, dalla decisione di respirare, di continuare a respirare, di dire no alla morte e sì alla vita.
“Volevo vivere, tutto il resto non aveva importanza. Vivere, vivere la mia vita, viverla come e fino a quando mi pare e piace. […] Quella notte, nell’attimo decisivo, tra le due possibili strade io avevo deciso la strada della vita. […] Non avevo voluto smettere di respirare come l’altro davanti a me, avevo voluto continuare a respirare e continuare a vivere.”
Credo che ci siano pochi scrittori che facciano sentire i propri lettori più prossimi al cuore pulsante dell’esistenza di quanto sia in grado di farlo Thomas Bernhard, questo insopportabile e riservatissimo signore austriaco, amico di pochi, tra cui l’indimenticabile Ingeborg Bachmann, e detestato da molti. Non si tratta sicuramente di uno scrittore per tutti. Ma è uno scrittore che, attraverso la finzione della sua scrittura, attraverso l’artificio e l’arte del pensare, attraverso un pensiero lucido, serio, sobrio, parla di tutti, proprio di tutti: della società che ci circonda, di sé, di colui che corre il rischio di scrivere e, naturalmente, anche di te.
Antichi Maestri
Ogni due giorni, un vecchio signore si siede nella Sala Bordone della Pinacoteca di Vienna e guarda un celebre quadro di Tintoretto. Quell’uomo ha molto del genio, in un Paese che non tollera i geni («Il genio e l’Austria non sono compatibili» leggeremo qui). Che cosa cerca? Qualcosa che non indovineremmo mai e che solo in un romanzo di Bernhard può diventare tema centrale: cerca i difetti dei capolavori («Il tutto e il perfetto non li sopportiamo»).
Il respiro
Come in un’allucinazione, il diciottenne Thomas Bernhard si risveglia un giorno in «un lungo corridoio» con una «infinita serie di stanze, aperte e chiuse, popolate da centinaia se non migliaia di pazienti». È l’ospedale dove Bernhard lotterà per sopravvivere a una grave malattia polmonare. Ed è una delle più nette immagini di «inferno» che Bernhard, maestro nella precisione dell’orrore, ci abbia trasmesso.
La cantina
Per abbandonare veramente il ginnasio di Salisburgo già descritto ne “L’origine”, con la sua nefasta mistura di nazismo e pietà cattolica, il giovane Bernhard doveva scegliere qualcosa che fosse anzitutto, e in tutti i sensi, «nella direzione opposta», il punto più lontano possibile nella direzione opposta. Perciò abbandonare il centro di Salisburgo, dove le persone stesse sono «arte decorativa», e finire nel quartiere più malfamato e più sordido della città, i cui abitanti vengono spesso chiamati «feccia dell’umanità».
Estinzione
Ultimo fra i romanzi di Thomas Bernhard, “Estinzione” è anche quello dal respiro più vasto, dove l’orchestrazione sottile e ossessiva della sua prosa raggiunge l’esito supremo. Come se Bernhard avesse voluto riprendere, una volta per sempre, tutto ciò che aveva oscuramente nutrito la sua «arte dell’esagerazione». E già nel titolo si può avvertire tale furia liquidatoria. Dalla lontana specola di una Roma solare e felice, dove si è rifugiato per sottrarsi alla persecuzione, alla soffocazione familiare, il narratore getta uno sguardo esacerbato sulla tetra Wolfsegg, feudo avito nell’Austria superiore toccatogli in eredità in seguito all’improvvisa morte dei genitori e del fratello.
Federico Ferrari (1969) è saggista, filosofo e critico d’arte. Il suo ultimo libro è L’antinomia critica (Sossella editore, 2023).