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Il successo è confermato dalla proroga fino al 15 settembre accordata alla mostra Il Sassetta e il suo tempo Uno sguardo sull’arte senese del primo Quattrocento . È sistemata nel Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, non nuovo a imprese del genere. Sei anni fa fu portato alla ribalta Ambrogio Lorenzetti insieme ad altre opere sparse nel territorio di pertinenza e si dimostrò il valore di operazioni che, senza cedere alla grancassa di formule solo turistiche, si prefiggano di far conoscere con un adeguato e innovativo apparato di studi e mirati restauri un patrimonio spesso ignorato. Oltretutto l’iniziativa di cui i massetani vanno fieri — sindaco Marcello Giuntini in testa con la dinamica direttrice Roberta Pieraccioli — si fregia di un miracolo che ne accresce l’attrattiva. Il curatore Alessandro Bagnoli, che si è avvalso di una schiera imponente di allievi e esperti, covava da tempo l’idea con inusitata pazienza.
Alla fine degli anni Ottanta monsignor Orlando Donati, un sacerdote che riservava un’assidua vigilanza alla conservazione di un patrimonio esposto a continui rischi, si presentò a Bagnoli, allora attivo funzionario in Soprintendenza, segnalando dubbi su una Madonna in umiltà col Bambino attribuita a Stefano di Giovanni detto il Sassetta e custodita nella pieve di San Giovanni Battista a Molli, presso Sovicille, tra i boschi della Montagnola. L’iscrizione che la nobilitava («Si confidis in me Sena eris gratia plena», «Se avrai fiducia in me Siena, sarai come me ripiena di grazia») attestava una provenienza urbana. La solenne iscrizione di derivazione teologica non era ascrivibile ad un manufatto stravolto da un riveditoio pasticcio tardo-barocco. La gentile Signora indossava una vaporosa veste con rassegnata mestizia.
Che fare? Bisognava reperire le risorse per un serio restauro, tentando di verificare se la funzione devozionale avesse spinto a uno sbrigativo abbellimento. Il Monte dei Paschi si accollò le spese e alfine si riuscì a realizzare un restauro «di rivelazione», eseguito da Barbara Schleicher. Ed apparve poco a poco l’antica Madonna che ora manda in estasi i visitatori. La tecnica usata fa risaltare quanto di originale è sopravvissuto e sostituisce le grevi aggiunzioni con un neutro grigiazzurro intonatissimo ai colori prescelti dal Sassetta. Una sublime eleganza emana dalla giovane, assorta in uno sguardo pensoso, già consapevole del destino del Figlio che ruzza stringendo con la mano sinistra un malmesso cardellino. Lungo il percorso non si contano le modulazioni che danno una varia continuità all’archetipo (1423) che proviene da Basciano (Monteriggioni), anch’esso restaurato con scientifica misura.
Sono 26 le opere di Stefano di Giovanni in catalogo e altre 23 appartengono a contemporanei e esemplificano il panorama che situa il protagonista in un circuito ricco di relazioni consonanti o addirittura partecipi di una medesima officina. La parte del leone spetta a Sano di Pietro, talmente prolifico da esser considerato l’iniziatore di una sfrenata replicabilità industriale. Ci s’imbatte così in un’annosa querelle: quale nome dare al cosiddetto Maestro dell’Osservanza, la basilica fondata da San Bernardino sul colle della Capriola? Ora la Natività della Vergine del discusso anonimo si trova ad Asciano, a Palazzo Corboli. Fu Roberto Longhi, quando però il caso non era ancora esploso, a sottolineare che quel dipinto era riconducibile ad un autore dotato di spiccata autonomia. Bagnoli è dello stesso avviso e, anzi, lo argomenta con decisa insistenza. Altri restano di diversa opinione e optano per un giovane Sano. Cesare Brandi fu un ammiratore entusiasta del Sassetta, «perché — scrisse — la sua pittura sta sempre come dietro a un velo, si rivela lentamente e rimane a lungo su una soglia che il profano non può attraversare».
Al di là di dilemmi specialistici si è concordi nell’attribuire a Stefano di Giovanni — nato verso il 1400 a Cortona (Fattorini), dove passò l’infanzia prima di trasferirsi a Siena, entro il 1410, al seguito del padre Giovanni di Consolo e morto nel 1450 — una prudente ma avvertita mediazione tra una mai abbandonata fedeltà a canoni del gotico senese e l’immissione di ariose morbidezze proprie di Masolino o, più tardi, di una drammatica plasticità masaccesca. Si vedano i frammenti terminali di una Crocefissione quali la Vergine dolente e il San Giovanni o, soprattutto, il San Martino e il povero (1433): il cui smagrito corpo tremante par quasi citazione di uno dei neofiti affrescati nella Brancacci. Per non dire dell’incantevole Adorazione dei Magi (1433-45), parte di primo piano (Pope-Hennessy, 1939) della tavola che rappresenta sincronicamente momenti di una carovana che si snoda sullo sfondo. La fase iniziale fu staccata ed è ora una tavoletta a se stante del Metropolitan di New York. Qualche anno fa i due pezzi furono accoppiati in un’emozionante provvisorio recupero. Non sempre questo è fattibile. Il notevole costo e le difficoltà dei prestiti farebbero salire i bilanci in misura impressionante.
È imperativo stare coi piedi per terra e organizzare esposizioni di questa taglia — godibili e comprensibili — con criteri ispirati a sicurezza e sostenibilità. In questo senso l’esperienza di Massa Marittima, grazie anche alla collaudata regia da Donatella Capresi, suggerisce un metodo non sempre seguito. Beni unici e fragili non vanno equiparati a turisti pronti per qualsiasi avventura. È da trasferire ciò che è funzionale alla conoscenza e si trova in condizioni tali da non correre alcun pericolo. Il Sassetta a Massa — fa notare il generoso direttore della Pinacoteca di Siena Axel Hémery — è quasi di casa. E se grandiose macchine sono immaginabili attraverso loro frammenti non c’è nulla di strano. È inevitabile che questo, ad esempio, accada per l’enorme e semidistrutta Pala dell’Arte della Lana (1423-25). La piccola tavola cuspidata raffigurante l’arcangelo Gabriele (1428-30) è il solo capolavoro che dimora stabilmente a Massa di Maremma. Consegna il suo messaggio alle eteree onde che lo porteranno alla giovinetta residente molto lontano, a New Haven.
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