«Perché le tre del mattino sono sempre l’ora preferita per mettere su Nick Cave, cadere in depressione e suicidarsi?» si chiedeva Danny (Noah Taylor), il protagonista di un film cult australiano di qualche anno fa, E morì con un felafel in mano, alla cui colonna sonora aveva contribuito lo stesso Cave. Era il 2001, e Nick Cave – per quanto ancora iscritto alle atmosfere notturne e deprimenti – aveva già in buona parte abbandonato il suo personaggio di leader maledetto e autolesionista dei Birthday Party prima, e dei Bad Seeds poi, per imporsi come qualcosa di diverso: un narratore per il nuovo millennio, capace di tenere insieme la mitologia del rock’n’roll riletta attraverso le lenti del post punk (la cavalcata di Tupelo, che apriva il primo album a nome Nick Cave and the Bad Seeds, del 1985) con la grande letteratura inglese e americana, un simbolismo intriso di suggestioni gotiche e veterotestamentarie con un sarcasmo beffardo formato sulla cultura pop.
Ormai disintossicatosi dagli eccessi che lo avevano accompagnato per buona parte degli anni 80, dall’Australia a Londra fino agli squat di Berlino Ovest, Cave aveva anche ammorbidito lo stile dei suoi dischi, indulgendo in struggenti piano ballads che lo avevano persino portato anche alle soglie di un qualche mainstream (con la punta di un notevolissimo duetto con Kylie Minogue nel 1996).
In quegli anni di passaggio era venuto ai suoi seguaci il sospetto che Cave fosse condannato a diventare la reliquia di un’epoca passata. Uno di quei musicisti di talento ma in fondo un po’ patetici, che campano dei fasti della loro gioventù trasgressiva mentre cercano di traghettarsi nell’età adulta, e poi nella mezza età, fino a una vecchiaia un po’ triste.
Non è stato così, e negli ultimi anni Cave ha addirittura registrato alcune delle sue opere migliori. C’entra, da un lato, una iperattività produttiva che lo ha mantenuto sotto le luci della ribalta: oltre ai dischi a cadenza più o meno regolare, alcuni side project (gli ottimi Grinderman), le colonne sonore, un romanzo (da rileggere: La morte di Bunny Munro, Feltrinelli 2009), un sito-blog in cui risponde ai fan sulle questioni della vita (The Red Hand Files). Persino un libro di poesie scritte sui sacchettini per il vomito che si trovano negli aerei (The sick bag song, pubblicato in Italia da Bompiani).
Dall’altra, anche in età matura Cave si è trovato – come molti narratori – a dover metabolizzare il complesso rapporto fra pubblico e privato, fra vita e arte: segnato nel 2015 dalla morte di suo figlio quindicenne Arthur, caduto da una scogliera nei pressi di Brighton, Cave aveva elaborato il lutto in un disco – Ghosteen – attraversato da un dolore struggente e allo stesso tempo da lampi di luce e di speranza (elemento che lo avvicina a quello che è forse l’altro grande cantautore anglofono vivente, di una generazione più giovane: Sufjan Stevens). Dopo il più dimenticabile Carnage, in coppia con il solo Warren Ellis, suo fedelissimo partner artistico di questi ultimi anni, Cave ha rimesso insieme i Bad Seeds per dare un impossibile seguito a quel capolavoro dolente.
Wild God, uscito a fine agosto, restituisce l’impressione di un Cave più maturo – l’ennesimo Cave più maturo di una carriera fatta di crescente maturità – che cerca di tirare le somme di qualcosa. I Bad Seeds suonano a briglia più sciolta, e addirittura si permettono alcune cavalcate epiche come non succedeva da tempo. C’è il blues e il rock’n’roll, c’è la religione nei suoi aspetti più pagani (Wild God) e una certa ironia, che mescola riferimenti alti e bassi con la consueta disinvoltura.
Certo, ci sono i fantasmi degli anni recenti (in Joy: “I woke up this morning with the blues all around my head / I felt like someone in my family was dead” Stamattina mi sono svegliato con la tristezza in testa / mi sentivo come se qualcuno nella mia famiglia fosse morto), ma c’è anche la nostalgia per la giovinezza, incarnata nella voce telefonica di Anita Lane, musicista e compagna negli anni Ottanta, in O Wow O Wow (How wonderful she is). C’è anche un po’ di leggerezza, e – persino – un po’ di gioia: niente a che vedere con i sentimenti suicidi alle tre del mattino di cui sopra. C’è, in fondo, il Nick Cave di oggi: i suoi dischi – come i suoi concerti (unica data italiana il 20 ottobre al Forum di Assago, sold out da tempo) – ormai si aspettano come si aspettano i libri di un grande romanziere: alla ricerca di qualcosa che si conosce già, di una ripetizione confortante e confortevole, in attesa di un nuovo capolavoro. Non è il caso di Wild god, ma va bene così. Anche i cantautori tormentati hanno diritto a un po’ di felicità.