“Regimi autoritari, dittature e Paesi in guerra”: è questa una descrizione sommaria di una parte dei destinatari delle esportazioni italiane di armamenti nel mondo, secondo la rivista dell’Archivio Disarmo (“Iriad Review”, Studi sulla pace e sui conflitti 06/2020, 30 anni di 185: dal commercio senza vincoli all’export del 2020). Come sappiamo, pecunia non olet. E ci vorrebbe tanta fantasia per immaginare che dal 2020 a oggi la situazione sia migliorata, da questo punto di vista, con l’allargamento e l’inasprimento di conflitti storici, come quello russo-ucraino o quello mediorientale. Eppure il governo italiano, tra le priorità della sua azione, avverte l’esigenza di adeguare la normativa vigente per renderla “più rispondente alle sfide derivanti dall’evoluzione del contesto internazionale”. È quanto si legge nella relazione che accompagna il disegno di legge di iniziativa governativa, primo firmatario il ministro degli Esteri Antonio Tajani, dal titolo “Modifiche alla legge 9 luglio 1990, n.185, recante nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, agli atti del Senato (ddl n. 855), che sta compiendo il suo iter nella commissione Esteri e Difesa di palazzo Madama.
La 185/90, una legge-manifesto
Il forte e articolato movimento pacifista degli anni Ottanta del secolo scorso, pur sconfitto rispetto alle decisioni assunte in ambito Nato sullo schieramento dei cosiddetti euromissili sotto la presidenza Reagan, contribuì a sedimentare un sentire comune critico rispetto alla guerra e alla corsa agli armamenti. Sinistra tradizionale, movimenti ambientalisti, settori attivi del mondo cattolico lanciarono campagne di opinione (la più nota forse è quella “contro i mercanti di morte”, d’ispirazione appunto cristiana) che contribuirono in modo significativo al dibattito pubblico che portò, nel 1990, all’approvazione della legge 185/90 che il governo Meloni si propone di cambiare, e che già in passato, per la verità, ha subito modifiche e adeguamenti. Conserva tuttavia un fortissimo aggancio al dettato costituzionale e ha i caratteri di una vera e propria norma-manifesto, tanto che, come spiegava la rivista dell’Archivio Disarmo, all’atto della sua approvazione “si collocò all’avanguardia sul piano internazionale, divenendo un punto di riferimento importante per le successive norme sia a livello europeo (Codice di Condotta, 1998; Posizione Comune 2008/944/Pesc), sia a livello mondiale”.
Il commercio di armamenti e licenze produttive, in entrata e in uscita dall’Italia, deve essere conforme “alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni – si legge al comma 1 dell’articolo 1 – vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il comma 6 del medesimo articolo 1 contiene un dettagliato elenco dei divieti di esportazione in base alle tipologie di Paesi interessati: fra gli altri, quelli che hanno in corso un conflitto armato (ricorda qualcosa?), quelli “la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione”, quelli “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, della Ue o del Consiglio d’Europa”.
Le “sfide” le raccontano i numeri
Quali sono le “sfide” alle quali l’esecutivo intende rispondere adeguando la legge vigente? Più che agli scenari geopolitici, piuttosto noti, è forse il caso di guardare ai numeri. Il primo dato, quello globale, contenuto nel consueto rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), ci dice che “il numero totale di Stati in cui si sono registrati conflitti armati nel 2022 è 56, 5 in più del 2021. Tre di questi conflitti armati (in Ucraina, Myanmar e Nigeria) sono sicuramente classificabili come gravi conflitti con almeno 10.000 decessi associati al conflitto”; e che “nel 2022 la spesa militare globale è aumentata per l’ottavo anno consecutivo, raggiungendo una cifra stimata di 2.240 miliardi di dollari – il livello più alto mai registrato dal Sipri”.
Venendo al quadro domestico, cioè europeo e italiano, secondo i dati diffusi dalla Rete “Pace e disarmo”, sulla base di un’analisi elaborata da Enaat (European Network Against Arms Trade), “la spesa militare aggregata dell’Unione europea e dei Paesi europei della Nato ha raggiunto i 346 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento dell’1,9% in termini reali rispetto al 2021 e del 29,4% rispetto al punto di minimo del 2014. È quasi quattro volte la spesa della Russia e l’1,65% del Pil totale”. Ma, attenzione, “oltre alle spese militari nazionali, la stessa Unione europea ha aumentato esponenzialmente il proprio bilancio in armamenti in pochi anni. Mentre i Trattati europei per lungo tempo hanno escluso l’uso del bilancio comunitario per attività di questo tipo, oggi l’Ue destina almeno il 2% del suo bilancio a scopi militari”.
Armi e diritti umani
Nel dossier degli uffici studi parlamentari, messo a disposizione dei senatori per l’esame del disegno di legge Tajani, vengono riportati alcuni dati dell’annuale “Relazione al parlamento sul commercio di armamenti”. Un esempio vale per tutti: fra i Paesi destinatari delle esportazioni italiane nel 2022 “la Turchia – si legge nel documento – sale al primo posto con 598,2 milioni di euro, in notevole aumento rispetto ai 41,5 milioni di euro dell’anno precedente, in cui si collocava al 17mo posto”.
È appena il caso di ricordare che l’ex presidente del Consiglio,Mario Draghi, spiegò, a proposito dei rapporti con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, che “con i dittatori bisogna essere franchi, ma cooperare”. Impegno rispettato, non c’è che dire, con animo leggero rispetto alle prescrizioni della legge 185, nonostante le forze armate turche siano impegnate spesso e volentieri sul territorio di altri Stati sovrani come la Siria e l’Iraq, e nonostante un curriculum tutt’altro che immacolato di Ankara sul fronte dei diritti umani, tema del quale le cancellerie occidentali tendono a ricordarsi, per così dire, a giorni alterni, più facilmente quando non si parla di alleati o “amici”. E del resto, come spiegava ancora nel 2020 la rivista dell’Archivio Disarmo, rispetto alle norme più politiche che la prima versione della legge conteneva, si è proceduto “attraverso il restringimento dei criteri relativi alle violazioni dei diritti umani (solo se denunciati da alcuni organismi internazionali e solo se ‘gravi’) e grazie all’utilizzo degli accordi di cooperazione militare che esonera i Paesi firmatari dall’applicazione dei divieti della 185”, cosicché “oltre 80 governi nel mondo ricevono nostri materiali d’armamento”. Se questo è il quadro di riferimento dal quale si parte per l’auspicata semplificazione delle procedure, a cosa può portare la realizzazione dei dichiarati obiettivi di “snellimento” burocratico delle procedure?
L’allarme dei pacifisti
La legge che la maggioranza di destra-centro si propone di varare reintroduce il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd), che deve sovraintendere al rispetto delle normative e dare risposta alle richieste autorizzative delle aziende del comparto. Il Cisd è presieduto dal presidente del Consiglio dei ministri; ad affiancarlo, i ministri degli Esteri, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia e delle Finanze, e delle Imprese e del made in Italy. Come si vede, un organismo schiettamente politico, una sorta di mini-Consiglio dei ministri delle armi, di fatto svincolato da reali contrappesi giuridici, che però ha compiti amministrativi. I divieti stabiliti dalla legge, legati alla Costituzione e ai principi del diritto internazionale, saranno quindi interpretati dal Comitato, che però, come un qualsiasi ufficio tecnico comunale, potrà essere anche aggirato attraverso l’innovazione forse più sorprendente contenuta nel disegno di legge: il silenzio-assenso.
Le deliberazioni vengono infatti assunte “entro quindici giorni” da una proposta del ministro degli Esteri “sentito” il ministro della Difesa. “Decorso inutilmente” tale termine, la proposta del ministro “si intende accolta”. Anche da qui, probabilmente, nasce l’allarme delle organizzazioni impegnate sul fronte del disarmo. In un riassunto delle audizioni svolte al Senato da Francesco Vignarca, per la Rete italiana “Pace e disarmo”, e da Giorgio Beretta, a nome dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), viene espresso il timore che con la riforma si vogliano “evitare valutazioni specifiche per ogni singola richiesta di autorizzazione, spostando tutte le decisioni ‘a priori’ e in maniera solo ipotetica. Il cuore della legge 185/90 (e anche dei trattati internazionali che ha ispirato) è infatti il concetto che ogni singola esportazione di armamenti abbia una propria valenza e un proprio possibile impatto negativo, che deve dunque essere sottoposto, ogni volta, a una valutazione approfondita e specifica. Queste sono le richieste in particolare del Trattato Att (Arms Trade Treaty) sul commercio di armi che il parlamento italiano ha ratificato all’unanimità nel 2013”. Temi seri, che dovrebbero trovare spazio adeguato nel dibattito pubblico, ma dei quali si trova a malapena qualche traccia nelle rassegne stampa degli ultimi mesi.