La sanità italiana è in crisi, ma certi settori lo sono più di altri: quello messo peggio probabilmente è la psichiatria. Eppure una volta il sistema di cura psichiatrica italiano – universalistico e pubblico – veniva preso a modello da molti paesi del mondo. Avevamo approvato una legge – la 180 del 1978, chiamata legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia che l’aveva ispirata – che prima al mondo considerava il paziente psichiatrico non un pazzo ma una persona bisognosa di cure, con diritti e doveri uguali a quelli di ogni cittadino.
La legge Basaglia ha fatto chiudere i manicomi, e i pazienti sono stati affidati alle cure della sanità pubblica. Chi soffriva di un disagio psichico poteva rivolgersi al centro di salute mentale del suo territorio, dove trovava psicologi, psichiatri, infermieri ed educatori che gli offrivano l’assistenza primaria e lo indirizzavano verso i servizi a lui più adeguati: le strutture semiresidenziali o le residenze terapeutiche e socio-riabilitative, oppure i day hospital e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, cioè i reparti di psichiatria degli ospedali.
Il fine era nobile: il paziente psichiatrico deve restare in ospedale il minor tempo possibile perché non deve diventare un malato cronico, bisogna somministrargli la minor quantità di psicofarmaci possibile e favorire le terapie psico-sociali per permettere il suo progressivo reinserimento nella società.
IL LENTO DECLINO
La psichiatria pubblica italiana ha raggiunto il suo apice nei primi anni ‘90, con capillari servizi sul territorio che hanno portato alla riduzione dei ricoveri ospedalieri. Poi, da quando nel 1992 sono state create le Asl – cioè le aziende sanitarie locali, che agivano da aziende e stavano attente alle spese – ed è stato introdotto il sistema delle cliniche private accreditate, equiparate a quelle pubbliche, è iniziato il suo lento declino.
Negli ultimi quindici anni, poi, i governi che si sono succeduti hanno operato una serie di tagli impietosi che hanno sottratto al Ssn oltre 37 miliardi di euro, e le cose sono peggiorate a precipizio. Basta guardare i numeri: secondo il Dpr 1° novembre 1999, che approvava il progetto obiettivo “Tutela salute mentale 1998-2000”, per fare funzionare correttamente i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) italiani servirebbe un operatore ogni 1.500 abitanti, cioè 67 ogni 100.000.
Invece, gli ultimi dati del ministero della Salute ci dicono che ora sono in servizio 28.807 operatori (57,4 per 100.000), di cui 25.754 dipendenti a tempo pieno, 1.789 part-time e 1.264 nel privato convenzionato. Rispetto allo standard fissato, ne mancano almeno 4.600.
«Ma per funzionare bene, avremmo necessità di oltre il 40 per cento in più di forza lavoro», afferma Fabrizio Starace, psichiatra, direttore del Dsm dell’Ausl di Modena. Poi, alla salute mentale spetterebbe il 5 per cento del fondo del Ssn, ma ne viene destinato solo il 2,9 per cento. Risultato: i Dsm, i day hospital e i reparti di psichiatria degli ospedali pubblici funzionano male perché mancano psichiatri, psicologi e infermieri, e quei pochi devono lavorare troppo e sono sottopagati.
LA QUALITÀ DELLE CURE
Ne risente ovviamente la qualità delle cure. Sempre più spesso le famiglie con un malato psichiatrico si lamentano che il peso dell’assistenza ricade quasi tutto sulle loro spalle, con conseguenze negative economiche e sociali.
Secondo il Rapporto sulla sanità di Cittadinanzattiva, un paziente psichiatrico su 4 denuncia di aver avuto difficoltà di accesso alle cure pubbliche, quasi un cittadino su 4 lamenta la scarsa qualità dell’assistenza fornita nei dipartimenti e centri di salute mentale, per ridotte ore di assistenza, per numero e frequenza di incontri, per una cura quasi sempre affidata esclusivamente alla terapia farmacologica.
«Il paziente psichiatrico è irrequieto, si lamenta, cerca di scappare. Nelle corsie degli ospedali ricoveriamo i pazienti in acuzie, cioè che stanno avendo una crisi, che potrebbero far male a sé e agli altri. Spesso ricoveriamo persone – perlopiù giovani – che hanno appena tentato il suicidio, e ci vorrebbe qualcuno che li sorvegli tutti 24 ore su 24», mi racconta un primario psichiatra di un ospedale del centro Italia che vuole restare anonimo.
«Servirebbe quasi un infermiere per paziente, invece a causa dei tagli abbiamo pochi psichiatri e pochi infermieri, sfiniti dal lavoro, che non ce la fanno a badare tutti, così spesso non ti resta che fare una cosa: somministri ai tuoi pazienti più psicofarmaci per tenerli buoni».
DISAGIO GIOVANILE
La psichiatria non può agire secondo la logica del profitto: i pazienti psichiatrici richiedono cure lunghe e costose che durano talvolta anni. In Italia gli individui affetti da un disturbo psichico sono almeno 17 milioni. Quello più comune è la depressione, che colpisce 3 milioni di persone, e milioni di individui soffrono di disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze da alcol, droghe o farmaci, disturbo bipolare, eccetera. Il 75 per cento dei casi si manifesta entro i primi 25 anni di vita: quindi, il disagio mentale è tipico dell’età giovanile.
Le malattie psichiche rappresentano la terza principale causa di mortalità prematura – dopo le malattie cardiovascolari e il cancro – a causa all’alto tasso di suicidi, overdose, e scompensi vari a essi associati. Con la pandemia di Covid-19, poi, l’incidenza dei disturbi psichici è esplosa: il numero degli individui affetti da sintomi depressivi o da ansia è quintuplicato, quello degli individui affetti da disturbi del comportamento alimentare è aumentato del 30 per cento. Eppure, si calcola che solo nel primo anno di pandemia 100mila italiani hanno rinunciato alle cure psichiatriche e si sono registrate 2,5 milioni di prestazioni in meno.
Un punto è cruciale. Un giovane che soffre di un disturbo psichiatrico viene ricoverato nel reparto di psichiatria di un ospedale pubblico quando è acuto – un adolescente depresso viene ricoverato subito dopo che ha tentato il suicidio, o una ragazza che soffre di anoressia quando ha perso così tanto peso da rischiare un arresto cardiaco – qui viene stabilizzato, e dopo poco dimesso. E dopo le dimissioni molti di questi giovani dovrebbero essere ricoverati in una comunità psichiatrica per cure che possono durare anche anni.
Ma le comunità psichiatriche pubbliche sono pochissime, e tra quelle private alcune sono lodevoli ma molte ragionano troppo secondo la logica del profitto – minima spesa, massima resa. Nel passaggio dalla neuropsichiatria infantile alla psichiatria per adulti, le famiglie precipitano nel vuoto, e comincia il calvario.
COMUNITÀ PSICHIATRICHE
«Mia figlia soffriva da anni di anoressia e di autolesionismo, sì tagliava in continuazione», mi racconta Simona, mamma di Agnese. «L’anno scorso è peggiorata e l’abbiamo dovuta ricoverare in psichiatria, dov’è rimasta un mese poi l’hanno dimessa. Ci hanno detto: “Bisogna ricoverarla in una comunità”. Solo che la comunità aveva una lista di attesa di nove mesi. Tornata a casa, Agnese è peggiorata, e dopo quattro mesi non ce l’ha più fatta: ha ingerito tantissime medicine, è entrata in coma, in terapia intensiva mi avevano detto che sarebbe morta. Invece per miracolo si è salvata, e ora, dopo un anno, è entrata in comunità».
Lo stesso miracolo non è accaduto a Katia, mamma di Chiara. «Mia figlia soffriva di un’anoressia gravissima, era in lista d’attesa da diciotto mesi. Finalmente una mattina la comunità privata mi chiama, mi dicono: “C’è posto per sua figlia”. Mia figlia si prepara felice, ma poi il pomeriggio ci chiamano, e ci dicono: “Ci siamo sbagliati, il posto non c’è più”.
Una dirigente di quella comunità, che per questo si è dimessa, mi ha confessato che non avevano accettato mia figlia perché aveva un codice di bassa gravità. Cioè, se sei più grave lo stato paga alla comunità sui 250 euro al giorno, se sei meno grave solo 180 circa. Hanno rifiutato mia figlia per una questione di soldi. Mia figlia si è sentita rifiutata, dopo un mese ha ingoiato 150 pasticche di antidepressivi e si è tolta la vita». Chi se lo può permettere, ricovera suo figlio in una bella clinica privata convenzionata. Chi non se lo può permettere, aspetta, e spera.