Torna in libreria il grande reportage di Arendt dal processo Eichmann Racconto dell’abisso di un uomo mediocre. E dei suoi troppi complici
Si può raccontare il male non mentre si compie, ma quando si deposita attraverso la distanza del tempo e riassume la forma ordinaria del vivere quotidiano, mimetizzando l’inumano nell’umano? C’è un uomo in una gabbia di vetro che lo circonda per proteggerlo, lo isola mentre lo segnala e lo espone nell’aula del Tribunale di Gerusalemme, davanti al mondo. Di fronte tre giudici col capo scoperto e la toga nera, poi gli interpreti che traducono dall’ebraico al tedesco, quindi il pubblico ministero e il difensore, col suo unico assistente. Fuori poliziotti sui tetti e agli incroci, agenti in attesa nelle strade vicine, pronti a un intervento d’emergenza. Perché lui è Adolf Eichmann, catturato da un commando alla periferia di Buenos Aires la sera dell’11 maggio 1960 e portato a giudizio in Israele l’11 aprile 1961 con quindici imputazioni per crimini di guerra, contro il popolo ebraico e contro l’umanità, punibili con la pena di morte.
Bisogna immaginare Hannah Arendt con il taccuino aperto mentre si sporge dalla postazione dei giornalisti per guardarlo e raccogliere i segni della sproporzione tra la persona e il crimine, tra l’inaudito passato alla storia e l’ordinario registrato nell’aula: con quella presenza insieme materiale e simbolica del male racchiusa in una figura di mezza età, con la calvizie che si fa spazio, la dentatura irregolare, gli occhi miopi che ogni tanto si stringono, il collo magro e chiaro curvato sulle carte. Nulla di eccezionale traspare, niente suggerisce un segnale che riveli dove si nasconde l’origine dell’inconcepibile, il mistero germinale, come se il corpo umano nelle sue espressioni fosse incapace di contenerlo per intero. Ecco la prima rivelazione del processo: quel che si vede e quel che si sente non riescono a restituire la portata dell’accaduto che resiste al diritto, alla giustizia, alla pietà dunque alla comprensione, quasi che non si riesca a varcare la soglia dell’umano.
Eppure il dibattimento di Gerusalemme si basa sulle testimonianze dei sopravvissuti, non sulle carte come a Norimberga: ma sappiamo che nel primo periodo dopo la guerra non si può parlare di una vera e propria memoria della Shoah, perché gli stessi sopravvissuti non riescono a riprodurre l’immagine di ciò che hanno patito, portandolo nella vita comune. L’inconcepibileche avevano incontrato nei campi rimaneva inesprimibile, perché non era condivisibile, finché la scrittura ha rotto il silenzio con Primo Levi, permettendo al ricordo di rielaborarsi per comunicare se stesso, vivendo anche fuori dal singolo individuo e uscendo dall’esperienza fisica del dolore. Con la sofferenza che si fa strumento di conoscenza dell’inaudito e diventa immediatamente consapevolezza, responsabilità e giudizio. Dunque memoria.
Non è quindi solamente un processo, quello di Gerusalemme, e non cerca soltanto di rendere giustizia alle vittime dell’olocausto e ai sopravvissuti. Non è vendetta e nemmeno risarcimento, ma qualcosa di più, doveroso e necessario, perché fa parte della liberazione. È il tentativo di recuperare una misura umana di razionalità che consenta di mandare avanti il mondo dopo Auschwitz, attraverso il dovere di rivivere gli avvenimenti per poterli leggere, catalogare e finalmente giudicare recuperando una norma e un criterio, ristabilendo infine un canone morale universale da cui ricominciare. Il lavoro giornalistico, nella sua autonomia, è anche un libero strumento della memoria: il suo vero obiettivo è la ricerca di un significato di ciò che è stato, risalendo il tempo e recuperando il senso della storia, perché il mondo non è fatto di episodi alla deriva e fenomeni contingenti, senza radici, proiezioni e cause. La memoria è questo raccordo del tempo, ma è soprattutto un sistema di misura delle esperienze vissute, dunque è un atto politico nel senso più ampio e più alto del termine: non solo perché consente di conoscere, comprendere e giudicare, ma perché permette l’esercizio della coscienza.
Arendt ha il lasciapassare dei giornalisti, siede tra i reporter, è in aula per scrivere le sue corrispondenze per ilNew Yorker. Il suo lavoro è quello di osservare, ordinare, restituire nella scrittura dei reportage quei pezzi di realtà che ha incontrato. Ma capisce subito che non può accontentarsi di essere il medium tra il lettore e il processo. Ciò che è avvenuto e che rivive in aula confonde lo spazio e aggroviglia il tempo, porta l’oggi a entrare nello ieri, e il giornalismo non può limitarsi a registrare. Di fronte alla potenza di quell’accusa cambiano i doveri e le regole d’ingaggio, non si può rimanere spettatori, di lato, in un recinto protetto: e nemmeno soltanto testimoni. Arendt non è a Gerusalemme per assistere, ma per condividere, attraverso l’intelligenza degli avvenimenti (come la chiamerà Aldo Moro), la conoscenza dell’accaduto, la disponibilità a farsi carico della responsabilità che nasce dal disvelamento. Deve calarsi dentro, prendere parte coi suoi giudizi mettendosi direttamente in gioco, svolgere la sua funzioneportando in quell’aula la sua dotazione di conoscenza, il suo sapere, la sua fatica di affondare e provare a risalire dentro questa tragedia. Di nuovo: l’intelligenza chiede aiuto alla coscienza.
È la consapevolezza di scrivere giorno dopo giorno la cronaca della storia, un impegno che comporta un obbligo morale, non solo una serie di doveri professionali. E che nasce e si realizza nel bisogno fondamentale di comprendere per far comprendere, di esplorare, lasciarsi contagiare, continuando ad ascoltare l’insistenza dell’unica domanda che conta nel mestiere: cosa resta da capire?
La scrittura, come espressione concettuale della rivisitazione del reale, registra questo passaggio e il libro che raccoglie le corrispondenze dal tribunale lo testimonia. All’inizio la cronaca ha il sopravvento, come se nel clamore mondiale del processo bastasse assistere alle udienze e immergersi nelle ricostruzioni per governare i fenomeni, allinearli e renderli intellegibili. Subito, però, il racconto in presa diretta si appoggia alla riflessione, si contamina e si arricchisce, porta Arendt nel cuore morale del problema, dove rimarrà fino all’ultima pagina aprendosi ai dubbi, persino alle questioni che la difesa avrebbe potuto sollevare mentre non lo ha fatto, alle domande scomode, al rifiuto anticipato del politicamente corretto.
Quasi inconsapevolmente lo sguardo di Arendt si sposta e si prolunga, allarga il campo dall’imputato al mondo di complicità, obbedienza, cecità che lo circonda e lo accompagna rassicurandolo col conformismo generale, con la medietà regolare che rende normale l’eccezionale quando diventa consuetudinario, replicato burocraticamente con la meccanica abituale di un metodo. Comincia l’esplorazione attenta e appassionata del contesto storico e politico, un’analisi del tempo nazista indispensabileper capire come quella quotidianità ordinaria e mediocre abbia potuto farsi strumento dell’orrore, superando i suoi limiti. O forse scivolando sotto la soglia del limite, perché il processo di riduzione della consapevolezza di sé e della responsabilità per gli altri ottunde, sgombra il terreno da ogni ostacolo e fa cadere qualsiasi tipo di interdetto, anche quelli supremi, morale, religioso, civile.
Si può trasgredire la regola più sacra – e dunque più umana – trascendendola per superarla d’imperio col sacrilegio, non riconoscendola più come vincolante e legittima: quella norma però, scopriamo, è anche possibile ignorarla riparandosi nell’ottusità del compito assegnato dal comando, senza mai alzare lo sguardo sulle conseguenze, anzi limitando la visione alle proprie azioni ridotte a tecnica, impedendo a se stessi di pensare che fanno parte di un progetto di distruzione umana. Finché a Gerusalemme arriva il momento del rendiconto, per distribuire a ognuno degli attori di quella procedura la sua quota di responsabilità, che non si può nascondere per sempre.[…] Cosa resta sul quaderno della corrispondente? La percezione fisica della difficoltà di comunicare l’offesa, la sua vergogna e i suoi guasti, di vederla riprendere forma dentro l’aula, di nominare l’impronunciabile. Una difficoltà per chi ascolta, e sa che può soltanto immaginare ciò che si sta ricostruendo nel tribunale perché tutti conoscano, e a quel punto possa aver corso la giustizia; ma anche per chi rievoca nelle udienze una realtà che ha patito, perché per rivisitare il peccato supremo contro l’uomo occorre «purezza d’animo, un’innocenza cristallina di cuore e di mente, quale soltanto i giusti possiedono».
Poi, una frase di Arendt che vale anche per lei, come per tutti: «Si vide quanto fosse difficile raccontare » .