A contrasto con la silente sobrietà di San Zeno, chi visiti a Verona la splendida basilica di Sant’Anastasia, monumento gotico fondato dai Domenicani sul finire del XIII secolo, e ricco, in ogni cappella, di preziosi manufatti d’arte, non può non essere soggiogato dalle cinque cappelle del presbiterio, tutte elevate e ornate da eminenti famiglie veronesi: la cappella Cavalli con l’Adorazione di Altichiero; la cappella Pellegrini sovrastata – sopra l’arco d’accesso – dal San Giorgio e la Principessa, squisito capolavoro di Pisanello, con i 24 riquadri in terracotta a rilievo di Michele da Firenze che rivestono interamente le pareti; la cappella Lavagnoli, con gli affreschi di Francesco Benaglio e Michele da Verona, e la cappella Salerni con le scene di Bonaventura Boninsegna.
Persino il vasto presbiterio centrale e l’altar maggiore sono dominati dal monumento sepolcrale di Cortesia Serego, che troneggia, dall’alto del suo cavallo, sopra il più drammatico mistero cristiano, il Giudizio universale, affrescato sulla parete di fronte forse da Turone di Maxio.
E anche le cappelle delle navate, di sinistra e di destra, parlano soltanto di nobili famiglie: di Giano II Fregoso, di Pietro Bonaveri, di Flavio Pindemonte, ed altre ancora, che allineano affascinanti dipinti e sculture. La chiesa tutta è un catalogo della gloria dei potenti veronesi, a cominciare dagli Scaligeri, e in essa si compendia la storia mondana di una fiorente città e dei suoi poteri secolari.
Moltissime chiese italiane dell’età moderna (dal XV al XVIII secolo) presentano la stessa configurazione, ma qui lo spazio architettonico è tutto saturo di privilegi gentilizi.
Percorrendola, viene alla mente lo sguardo intenerito e ammirato con cui Proust contemplava le cattedrali medievali, immaginando che le maestranze, gli operai e gli artigiani, artefici di quei capitelli, si fossero ritagliati – intagliando le figure – il loro dovuto spazio nell’eternità: «E tutti, vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui scenderà, riconosca ad uno ad uno i suoi fedeli» (La mort des cathédrales). Qui a Sant’Anastasia, chi fosse entrato nei secoli della lunga fabbrica poteva solo riconoscere l’ineluttabilità del proprio servaggio che, con le stesse gerarchie, si perpetuava lungo le pareti e sino all’altare, consacrando in eterno gli ordini della società.
I grandi poi, il tempo ha ridotto a didascalie, e conserva solo i simboli che l’arte, tutto pareggiando sotto il suo primato estetico, lascia all’ammirazione dell’astante. La chiesa, le più belle chiese umanistiche d’Italia sono dunque – giustamente – divenute il museo dei turisti anziché il tempio dei fedeli. E forse è persino un bene, se quella è, storicamente, l’immagine simbolica della società che gli edifici sacri perpetuano.
Papa Francesco, certo conscio di questo disagio, predica «una chiesa in uscita», fuori dalle basiliche e dai santuari, in cerca del tempo presente. Ma a queste folle anonime, che cosa offrire – una volta usciti dal tempio – che sappia riunire, convocare ad unità (il simbolo è proprio questo!), se anche Pascal scriveva nelle Pensées che la stessa «Eucarestia va errando confusa con il pane comune»?!
Il Papa ha forgiato, cercando di “simbolizzare” questa Chiesa in uscita, una formula forte: la chiesa come «ospedale da campo» («La civiltà cattolica», agosto 2013). Poi le battaglie sono venute davvero (ultime, e terribili, l’Ucraina e la Palestina) e questa formula mostra tutta la sua fragilità tanto nell’espressione letterale che nella sua predicabilità allegorica.
Così, tra un passato simbolicamente potente e socialmente non più proponibile, e un presente di diaspora, se non di esilio, privo di simboli efficaci o di oasi riconoscibili, la Chiesa esibisce – a tratti nervosamente, a tratti nostalgicamente – il proprio smarrimento.
Non c’è da pensare che la crisi sia di breve durata, come del resto durarono secoli di non-finito le fabbriche delle cattedrali, prima di vederle compiute nel loro svettare; né sono da seguire le fanfare di tanti “atei devoti” che sognano nuovi Cortesia Serego dominare e blandire gli altari soggiacenti. Bisognerebbe tuttavia almeno individuare di quali simboli abbia bisogno, per riconoscersi, l’anonimo quotidiano che sciama nelle nostre affaticate metropoli.
Ha ragione Mario Botta (Il cielo in terra. Un secolo di chiese e cappelle nell’architettura moderna e contemporanea, Libri Scheiwiller, pagg. 176, € 38): non è nella freccia della storia la soluzione, ma in quella di uno spazio germogliante tra terra e cielo che inviti l’uomo a guardare nella trasparenza e nell’infinito della luce. Gli edifici sacri ch’egli ci presenta – dal Gaudí della Sagrada Familia al Richard Meier della “Chiesa del Giubileo” a Tor Tre Teste, da Le Corbusier di Notre-Dame du Haut (Ronchamp) alla Cappella Bruder Klaus di Peter Zumthor a Mechernich – elevano la materia oltre l’esperienza (non è forse questo il segreto della creazione artistica?), costringono l’uomo a sradicarsi da terra, a sentirsi parte del ricamo celeste, come nella mirabile Concattedrale Gran Madre di Dio di Gio Ponti a Taranto. E lo stesso dobbiamo dire delle meditazioni architettoniche di Mario Botta, delle sue ascensioni figurali come la Cappella di Santa Maria degli Angeli, lassù sul Monte Tamaro in Ticino: «Da anni mi sto confrontando – egli conchiude – con il tema dello spazio del sacro. Cerco di far sì che lo spazio ponga l’uomo tra la terra e il cielo, escludendo le contaminazioni proprie della vita quotidiana». Chi visiti, come stazioni di un Sacro Monte, le sue chiese: da quella di Mogno a quella del Santo Volto a Torino alla chiesa di San Rocco a Sambuceto (Chieti), sente che il profano non s’insedia più come a Sant’Anastasia di Verona, perché non c’è più nulla che non sia trasfigurazione, abito di Luce.