Quando andiamo in un luogo di vacanza non dovremmo comportarci da persone che hanno pagato per un servizio e dunque pretendono di tutto, anche perché quello che abbiamo pagato è solo il prezzo della stanza di un hotel, è l’affitto breve di una casa, è il pranzo in un ristorante.

Non abbiamo cioè corrisposto una tariffa per poter fare il bello e il cattivo tempo in ogni angolo del luogo che visitiamo, sebbene il luogo sia probabilmente la ragione principale della nostra visita. Restiamo semplici ospiti della città, della montagna, della campagna, del mare. Esseri umani che legittimamente si aggirano per il mondo. L’economia della situazione è questa.

Un pianeta più felice del nostro sarebbe quello in cui tutti, in qualsiasi luogo, persino nei pressi della propria casa, e finanche dentro la casa, si comportano da ospiti. Con grazia, intendo. Immaginate per un attimo di tornare a casa stasera e ringraziare voi stessi per l’ospitalità.

«Mi autoringrazio per aver reso disponibile a me stesso questo tetto che ho sopra la testa. E buonasera a me». (Sto esagerando, ma gli esperimenti mentali talora rivelano cose alle quali non avevamo pensato).

Il luogo di vacanza che ci accoglie come visitatori a sua volta non deve trattarci da opportunità di massimizzazione di un profitto, perché così facendo ci spinge all’atteggiamento di chi ha pagato e pretende, e si torna al punto iniziale. La massimizzazione come sempre diventa una maledizione.

Parole angoscianti 

Cos’è il turismo? Sicuramente è una parola che un po’ angoscia. C’è un che di mesto nell’orgoglio di un paese che si proclama patria del turismo. La bellezza dei luoghi viene resa via via commestibile, e i luoghi si arrendono.

Per strada stamattina ho sentito una signora che diceva: «Voglio andare in vacanza a…! No, anzi, voglio andare da un’altra parte, un poco più in là, perché ormai quel posto è stato rovinato. Vent’anni fa era bello, ma poi». Caspita, ho pensato, vent’anni fa esisteva un luogo bello che ora è stato rovinato. Vent’anni sono pochi, il disfacimento è stato svelto. La signora in un tempo recentissimo andava in quel luogo, ma oggi lo butta nella spazzatura mentale. L’ha masticato (in fondo è stata turista anche lei) e oggi lo sputa.

Chissà se una località si accorge del momento in cui inizia a diventare meta per turisti che un domani sarà rovinata dal suo triste destino ineluttabile (il turismo se inizia è perlopiù ineluttabile).

Chissà se la località avverte il momento in cui comincia a trasformarsi in scena, in superficie e sfondo, in arredamento. In cui smette di vivere e si predispone a farsi guardare mentre vive. Il pane diventa tipico, gli scorci diventano da cartolina (si diceva un tempo) o da selfie (si dice oggi). L’ora del tramonto diventa golden hour. Una torsione silenziosa in cui la vita si ritira e subentra la messa in scena di un’identità. Folkloristica, semplificata (tutte le identità hanno qualcosa di folkloristico).

Il turismo non è un’attività neutra, ma un’industria estrattiva: risucchia e consuma il tempo, lo spazio, il senso. È un’economia che sembra buona solo se non guardi quel che lascia dietro. Precarietà, dipendenza, sterilizzazione culturale.

Il paese che vive di turismo è come un corpo che vive di applausi: ha bisogno dello sguardo dell’altro per esistere. Produce soggiorni. Non è un laboratorio di civiltà, come ogni luogo umano si meriterebbe almeno di essere. È una destinazione.

Non piacere 

Non si tratta di condannare il viaggio o chi viaggia. Io stessa vi scrivo mentre mi trovo in viaggio. Ma i luoghi che visitiamo devono poter mantenere gradi di libertà. Restare in parte opachi, illeggibili, ostili, inutili. Devono continuare a produrre pensiero, memoria e vita non fotografabile.

Devono poter non piacere. Mi viene in mente a questo proposito l’importanza dell’antipatia nell’epoca in cui tutti si sforzano di essere belli e simpatici.

I luoghi che più ci restano dentro spesso sono quelli che ci respingevano un po’, in cui abbiamo avuto l’impressione di disturbare, o che non si lasciavano capire. I luoghi impreparati a riceverci. L’esperienza in quel caso è stata di frizione e insensatezza.

Ci sono storie che non si fanno raccontare e verità che non si lasciano ripetere. Siamo stati in quel luogo misterioso e in qualche modo non siamo mai riusciti a spiegare perché fosse così importante per noi, e gli altri non l’hanno mai capito, e dentro questa frustrazione da mancata esternazione abita uno dei segreti fondamentali della nostra vita.

Non «il luogo in cui siamo stati felici», ma il luogo in cui il racconto si è interrotto e una tenda è stata tirata per non rivelare.