Di fronte ad un modesto test amministrativo si celebrano funerali a sinistra e si stappano bottiglie a destra. Invece è successo poco e niente. Nessuno è partito dai dati preferendo le sensazioni. Il nuovo Pd di Elly Schlein doveva andare bene perché rappresentava la maggiore novità in campo e i sondaggi indicavano un minimo segnale di ripresa. E non si capiva perché il centrodestra dovesse andare male, visto che il partito di Meloni veleggia sul 30% di consensi virtuali ed è reduce da una campagna efficacissima, con la premier, prima mano nella mano con Joe Biden, e poi con gli stivaloni nel fango romagnolo. Immagini che hanno offuscato la segretaria Pd. Anche perché una presenza più assidua nelle terre di cui è stata vicepresidente regionale non avrebbe guastato.

Cosa dicono i dati? Sui 13 capoluoghi al voto, il centro-sinistra targato Pd (quasi sempre senza 5Stelle) ne governava 5 e adesso gliene rimangono 3; inoltre ha perso 8 comuni sopra i 15.000 abitanti sui 30 che aveva. Un risultato negativo, non drammatico, soprattutto se si considera che i consiglieri comunali sono cresciuti. Questo risultato non ha una portata nazionale, sia per l’esiguità del corpo elettorale sia perché in quel caso giocano altri fattori. Infatti, nel giugno dello scorso anno, in un test amministrativo più ampio – 9 milioni di elettori – il centro-sinistra guadagnò 6 capoluoghi, la destra ne perse 4. Quel voto prospettava un Pd in netta ripresa. Poi sappiamo com’è andata. Per il semplice motivo che non si vince da soli, come ha detto giustamente Elly Schlein.

Il vero problema del Pd è questo, non la battuta d’arresto in qualche comune. Per vincere in un sistema partitico frammentato è necessario stringere alleanze che diano all’elettorato l’idea di essere competitivi. L’irruzione dei 5stelle ha scompaginato per alcuni anni la dinamica bipolare destra-sinistra, ma ora lo scontro riguarda di nuovo due fronti. Al momento non esiste uno schieramento di sinistra contrapposto al roccioso pacchetto di mischia di destra. Le frange moderate renziane-calendiane non hanno deciso da che parte stare.

E il M5s continua ad oscillare tra un rapporto cooperativo con il Pd e il desiderio di una corsa solitaria. Il Pd è in mezzo a questo guado. Per uscirne non rimane che rafforzare organizzativamente e culturalmente il partito. Un lavoro di lunga lena per consolidare le ragioni dell’appartenenza alla famiglia socialista europea, e reinstallare le strutture del partito nella società civile. Solo così si diventa egemoni nel proprio campo. E, sperabilmente, competitivi. A condizione che, pur con un dibattito interno acceso e senza sconti, sia garantita stabilità alla leadership.

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