Lucia Annunziata
Dove sei, amica? Dove sei, amico? Nelle pause inattese che le feste insinuano nel calendario, cade il muro dei ricordi. Banchi di legno, licei in caserme napoleoniche, chiese addobbate di bianco, aerei, macchine, tanti viaggi, serate, giorni, deserti devastati da guerre, cerimonie. Sarà ancora quello il suo numero, vivrà ancora lì, sarai viva, vivo? Gli amici, è vero, hanno per definizione la virtù di sparire e ricomparire. Li attendi e non arrivano, poi si ripresentano e non sai se sarà con loro un dolore o una gioia.
Ma mai come in questi ultimi tre anni ho contato tanto distacco. È stato un movimento senza rumore, nulla detto, nulla chiesto, nulla da rimproverare da nessuna delle parti. Un qualcosa che non ha bisogno di spiegazioni. La paura non ha voglia di raccontarsi. Nessuno vuole dire o sentire parole drastiche: a chi diremmo «ho paura che siamo morti»?
Un altro anno arriva in queste ore portando il peso di una maledizione. Cominciata tre anni fa. Anni di puro dolore.
****
Il 31 dicembre del 2019, la Cina comunicava all’Organizzazione Mondiale della Sanità la diffusione di un «cluster» di polmoniti atipiche.
Il 2020 nasce all’ombra, a gennaio, di una conferenza stampa, indimenticabile: la China’s National Health Commission confermava il sospetto più grave – c’era una nuova malattia virale, Covid 19, che si trasmetteva con grande facilità da uomo a uomo. Il 21 Gennaio a Wuhan, Cina, comincia il primo lockdown del mondo moderno, di proporzioni inimmaginabili – 60 milioni di persone vengono chiuse casa. Il 21 febbraio ci sono i primi casi italiani, l’11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara lo stato di Pandemia.
Da quelle prime settimane, non ci sono più date. Solo un lungo tunnel di documenti, annunci, documenti ancora, chiusure, finestre sbarrate, notizie avidamente cercate e altrettanto avidamente strappate dalla memoria. Nel giro di due anni, saremo definiti non dalla vita ma dalla immobilità, il «non fare» per non essere «scovati» dal virus. Già trasmutati in target viventi.
Il 2021
si annuncia con il Capodanno della stretta totale per contenere i contagi dei festeggiamenti. Niente è permesso. Nessun cenone, né pranzo al ristorante, vietata anche la colazione al bar: è consentito solo l’asporto fino alle 22 e la consegna a domicilio. È possibile andare a messa, ma il consiglio è quello di scegliere la chiesa più vicina a casa. Si può uscire, solo per passeggiare o fare una corsetta, ma da soli. Occorre uscire di casa con dei fogli, un’autocertificazione che si possa mostrare ai carabinieri nel caso di controlli, per provare che ci si sta muovendo nel solco degli spostamenti consentiti, lavoro, o necessità di tornare alla propria residenza o domicilio. Siamo alla fine del primo anno e ancora ogni giorno nasce intorno a domande fuori dal mondo – o almeno dal mondo degli umani. Si può andare nelle proprie case fuori regione? Si ma solo se sono di proprietà, Chi può andare fuori casa? Solo il nucleo familiare convivente, e due invitati. E gli amici? Nemmeno in città? Sì, ma sempre nel limite di due persone e rispettando gli orari del coprifuoco.
Il 2021 è l’anno del consolidamento di un deserto affettivo come unica alternativa alla sopravvivenza, come se gli uomini potessero sopravvivere nel deserto. D’altra parte come sottrarsi? Il Coronavirus, secondo il bollettino di venerdì 31 dicembre 2021 ci racconta ancora di 900.984 positivi, e 137.402 deceduti dall’inizio. Numeri di una nuova era.
Il 2022
. Il dolore della perdita della libertà fisica, è tuttavia solo uno dei possibili limiti varcati. Ce ne sono ben altri, e li varcheremo tutti. Il 24 febbraio del 2022 l’esercito russo invade l’Ucraina e da allora la guerra è con noi. La guerra che mette in discussione ogni certezza in Europa. Cambiati il senso dei confini, materiali e immateriali – quelli piccoli degli Stati, e quelli grandi che indicano le aree di influenza nel mondo. Saltati gli equilibri di poteri interni alla nuova Europa; saltati i miti della permanenza della pace legata alla creazione di un continente non più schiavo di istinti nazionali; superata la sicurezza del dominio della materia – sia essa il riscaldamento invernale, l’approvvigionamento dei beni, la libera circolazione delle persone – e quella del dominio della politica – la decisionalità dei popoli, la forza del voto, l’interconnessione delle culture, l’inappellabilità dei diritti umani.
Il mondo europeo, costruito sulla sicurezza di più di 70 anni di pace dopo l’ultima guerra mondiale, si è disfatto in un pugno di settimane. Proiettandoci indietro, a scene da vecchi documentari in bianco e nero, di città bruciate e cittadini coperti da stracci e terrore.
Fino all’incubo dell’arma definitiva del nucleare.
Il 2023
i
n arrivo ci trova davanti ancora a questo conflitto e alle nostre difficoltà, nel picco di un inverno come mai prima. Il Covid si riaffaccia alle porte delle nostre case, il valore del denaro cui abbiamo delegato il senso della nostra stabilità emotiva ci scivola dalle mani, e la guerra in Ucraina ha raggiunto il suo punto più alto di brutalità – nessun rifugio, nessuna pietà. Se mai ci sarà pace nascerà solo dal famoso deserto che stanno creando attraverso una campagna di piena distruzione i generali russi.
E se dal Covid ci siamo fatti piegare a una vita di debolezza, come abbiamo invece preso questa guerra? Si, davvero, come abbiamo affrontato il pericolo della distruzione finale di un popolo ( quello ucraino) e di noi stessi? Risposta breve, risposta chiara: con suprema indifferenza. Almeno in apparenza.
Abbiamo certo mostrato indignazione, abbiamo discusso su colpe e meriti, su soluzioni giuste o sbagliate, abbiamo fatto qualche spedizione umanitaria, abbiamo ridiscusso sulle nostre responsabilità e accolto dei profughi. Nel complesso abbiamo fatto meno di altri Paesi europei– meno profughi accolti, meno risorse economiche dedicate, meno attività di pace, e anche meno invii di armi e di uomini. Sarà che il Covid italiano è stato di dimensioni maggiori di quello di altri Paesi, ma la guerra di certo è stata guardata con una sensibilità ridotta, un intenso desiderio di non prenderne nota, un rifiuto di farsi coinvolgere fino in fondo.
Si certo, si è discusso, ma più in Tv che nel Paese; si è votato in Parlamento, e l’invio delle armi è stata alla base di una crisi di governo, ma nel lungo periodo anche la guerra è diventata parte, più che ragione di unità; le decisioni in merito sono state parte di una routine della lista delle tensioni intergovenative, oggetto di indebolimento più che di soluzioni. A proposito, 3 governi si sono avvicendati in questi stessi anni – Governo Conte 2 ( 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021, per un totale di 527 giorni); Governo Draghi (13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022, per un totale di 616 giorni); Governo Meloni in carica dal 22 ottobre 2022).
Un indice, anche questo di consunzione rapida della cosa pubblica, e della labilità del consenso popolare, nelle nuove circostanze.
È come se il nostro Paese avesse una sola piccola fonte di dolore e indignazione. Dopo 3 anni, con ogni possibile buona volontà, questa fonte appare esaurita quasi tutta. Lasciando al suo posto una sorta di vitalismo, mosso dalla speranza di «tornare come eravamo».
Spendere come prima, muoversi come prima, correre come prima. Sperare come prima nel Domani. Appunto.
Ma dietro le porte chiuse delle case, dentro le ultime ore della notte, dietro ogni squillo del telefono che non riceve risposta, c’è una defezione. Qualcuno che è troppo stanco, qualcuno cui non interessa più tutto quel rumore di parole, qualcuno che pensa solo al buio. O qualcuno che alla fine abbraccia come soluzione la solitudine in cui la storia ci ha portato.