Scontro nel governo israeliano: Netanyahu travolto dalle critiche per aver accusato i servizi militari e di intelligence di non aver previsto la strage del 7 ottobre. Una folla inferocita invade l’aeroporto di Makachkala dopo l’atterraggio di un aereo da Tel Aviv.
TEL AVIV-MOSCA — Da Israele piovono proteste formali contro la Russia che ospita delegazioni di Hamas e Iran e chiude un occhio davanti alle sempre più violente proteste antisemite nel Caucaso. Il vaso è oramai colmo. Le strette relazioni tra i due Paesi che si erano sviluppate sotto Vladimir Putin si erano raffreddate già dopo l’inizio dell’offensiva russa in Ucraina. Benché Israele non avesse aderito alle sanzioni occidentali contro Mosca e avesse negato armi letali a Kiev, l’aver dipinto l’“operazione militare speciale” come una lotta contro il neonazismo aveva non poco infastidito Tel Aviv. Per non parlare dei molteplici incontri tra delegati di Mosca e Hamas, che la Russia si è sempre rifiutata di etichettare come organizzazione terroristica. Dopo l’attacco del 7 ottobre, Putin però ha abbandonato ogni parvenza di equidistanza: ha atteso ben nove giorni prima di chiamare Benjamin Netanyahu, non ha mai condannato la violenza di Hamas, ha semmai paragonato il blocco di Gaza all’assedio di Leningrado.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata però la missione di Hamas a Mosca di venerdì. Dopo le proteste ufficiose, sono arrivate quelle formali. «Israele considera molto grave la mancanza di una inequivocabile e chiara condanna da parte russa delle azioni terroristiche di Hamas e la condotta russa nelle organizzazioni internazionali. Avere ospitato Hamas legittima il terrorismo contro Israele», è stato il messaggio recapitato all’ambasciatore russo in Israele Anatolij Viktorov convocato ieri dal ministero degli Esteri. Ma non era finita lì.
In serata, quando nel capoluogo daghestano Makachkala si è sparsa la voce che stava per atterrare un aereo in arrivo da Tel Aviv, una folla antisemita inferocita ha invaso l’aeroporto e controllato i passaporti della gente in arrivo e partenza alla ricerca di cittadini israeliani. C’era chi sventolava bandiere palestinesi, chi gridava “Allah Akhbar” e chi issava cartelloni improvvisati con le scritte: «In Daghestan non c’è posto per gli assassini di bambini» e «Siamo contro i rifugiati ebrei». Le forze di sicurezza hanno indugiato ore prima di intervenire e disperdere i manifestanti che da giorni hanno lanciato una vera e propria “caccia all’ebreo”. Non solo in Daghestan, la Repubblica russa più musulmana, ma in tutto il Caucaso a maggioranza musulmana: a Cherkessk, capoluogo della Circassia, dove manifestanti hanno chiesto di «sfrattare gli ebrei etnici », o a Nakchik, capoluogo della Cabardino-Balcaria, dove il centro ebraico in costruzione è stato incendiato e vandalizzato con la scritta “Morte allo Giudeo”. Episodi derubricati dalle autorità locali a «provocazioni organizzate da risorse estremiste amministrate dai nemici della Russia». Israele, naturalmente, non ci sta. L’ufficio di Netanyahu ha sottolineato in una notache «considera gravi i tentativi di attaccare i cittadini israeliani e gli ebrei in tutto il mondo» e invitato la Russia a «proteggere tutti i cittadini israeliani e tutti gli ebrei».
Non è l’unica grana per Netanyahu. Il premier israeliano è stato travolto da critiche dopo aver scritto sabato notte sull’ex Twitter che «in nessuna circostanza e in nessun momento» era stato avvisato della possibilità di un attacco di Hamas, tanto meno di qualcosa simile a quello che è poi accaduto il 7 ottobre: «Tutti i responsabili della sicurezza, incluso il capo dei servizi di intelligence militari e del servizio di sicurezza interno consideravano che Hamas fosse ormai sotto controllo». Post che ha dovuto cancellare scusandosi. L’incidente evidenzia quanto fragile sia la compattezza che la leadership israeliana ostenta in queste ore: Netanyahu, l’ex capo dell’opposizione Benny Gantz e il ministro della Difesa Yoav Gallant, il trio che guida il gabinetto di guerra, hanno alle spalle mesi, se non anni di divisioni. Gantz, centrista, ex capo di Stato maggiore, è l’uomo che maggiormente ha messo in pericolo la leadership di Netanyahu, arrivando a sconfiggerlo alle elezioni, ma senza riuscire poi a governare: a lungo ha accusato il premier di minare alle basi la democrazia israeliana. Gallant fu licenziato da Netanyahu, non in maniera formale, nel marzo scorso, dopo aver detto che il suo progetto di riforma giudiziaria metteva a rischio la sicurezza nazionale, perché migliaia di riservisti minacciavano di non presentarsi in servizio se approvato. Il premier a sua volta è indebolito dai processi per corruzione in corso e, soprattutto, dalle proteste contro la riforma giudiziaria voluta, secondo i manifestanti, proprio per mettersi al riparo dalle accuse della magistratura. Tensioni messe da parte dopo il 7 ottobre, ma tornate in superficie ieri.
«Vorrei esprimere il mio supporto a tutti gli ufficiali e i soldati delle Forze armate. In tempo di guerra, la leadership deve essere espressa in maniera responsabile, decidendo le cose giuste da fare e dando forza alle truppe in modo che possano fare ciò che chiediamo loro di fare», ha scritto di buon mattino Gantz. Sono seguite altre critiche fino a quando Netanyahu è stato costretto a cancellare il post: «Ho fatto un errore». La resa dei conti più che chiusa è da considerarsi rimandata. Il fallimento dei servizi di sicurezza, dell’esercito e del governo nell’anticipare l’attacco di Hamas è considerato uno dei peggiori della Storia del Paese: simile a quello con cui nel 1973 lo Stato ebraico si fece sorprendere dall’attacco congiunto di Siria ed Egitto. Allora la premier era Golda Meir: guidò il Paese alla vittoria nella guerra che seguì ma un anno dopo fu costretta alle dimissioni. Cinquant’anni dopo, solo il tempo potrà dire se a Netanyahu accadrà lo stesso.