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di Francesco Giavazzi
Come sta l’economia italiana? Un segnale molto positivo è il costante aumento del numero di occupati e in particolare di lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Nel corso dello scorso anno il numero degli occupati con posti di lavoro a tempo indeterminato è cresciuto di quasi mezzo milione (456 mila su un totale di 23,7 milioni) a fronte della diminuzione di 5 mila dipendenti a termine.
Ma in questo dato non ci sono solo notizie positive. Ciò che sta accadendo nel mercato del lavoro segnala che la produttività della nostra economia non cresce ed è la produttività che misura la salute di un’economia. Perché se aumenta il numero dei lavoratori, ma non quanto essi producono (il Pil infatti è sostanzialmente fermo), ciò significa che la produttività media scende. È vero che questa media è il risultato di due tendenze molto diverse: una contrazione dell’occupazione nell’industria, dove la produttività è relativamente elevata, e una forte espansione del settore delle costruzioni, dove la produttività è più bassa. Comunque sia, il risultato è che la produttività media scende e questo spiega anche perché i salari reali già bassi, scendono.
Nell’industria, accanto alla caduta della produzione, si sono fermati anche gli investimenti, che nel terzo trimestre del 2023 sono scesi dell’1,1%, continuando la tendenza negativa dei tre mesi precedenti (-1,3%).
P erché i nostri imprenditori non investono? Non credo che il motivo sia il costo dei finanziamenti. Dopo più di un decennio con tassi nominali pari a zero può apparire elevato il tasso di interesse medio sui nuovi finanziamento alle imprese che era, a novembre, pari al 5,6%. Ma non si deve dimenticare che l’inflazione è stata elevata e oggi, per quanto scesa, rimane attorno al 3%. E questo tiene bassi i tassi di interesse reali.
La realtà è che il governo vuole essere più presente, senza però delineare i confini del suo intervento: in questo modo introduce ulteriore incertezza nelle scelte dell’imprenditore.
Si discute come se fosse cosa secondaria, l’ingresso dello Stato in Stellantis, un’azienda che, al pari di tutti i suoi concorrenti, è alle prese con una delle scelte più difficili della sua storia: decidere quale sia un giusto equilibrio tra auto elettriche, ibride e termiche nella transizione tecnologica. Un problema che non si risolve certo acquistando un po’ di azioni, anche se l’acquirente è lo Stato. È inoltre quanto meno bizzarro che il governo non abbia messo in conto di influire sul prezzo di Borsa a favore degli attuali azionisti di Stellantis (salita ieri del 2,3%).
Quanta incertezza producono le divergenze fra ministero dell’Economia e palazzo Chigi sul Decreto Legge «capitali» in cui la vera posta in gioco è la governance delle Assicurazioni Generali? E quelle norme che riflesso avranno su altri grandi gruppi? Seguendo peraltro una linea che, al momento, pare andare contro le regole di governance di mercato.
Quanto alle annunciate privatizzazioni si fa fatica a comprenderne gli obiettivi. Non è ininfluente sentir dire, dalla presidente del Consiglio: «Le privatizzazioni non hanno come unico scopo quello di fare cassa per ridurre il debito pubblico: devono essere uno strumento di politica industriale». Questa frase significa che lo Stato non intende usare le privatizzazioni per trasferire il controllo di alcune aziende oggi pubbliche a investitori privati: significa che vuole continuare a controllarle e usarle come strumento di intervento sui mercati. Una strada pericolosa in quanto lo Stato, diversamente dai privati, decide ma poi non paga le conseguenze delle sue decisioni.
Basta scorrere le cronache finanziarie ed economiche di queste ultime settimane per comprendere quanti dossier siano ancora aperti e quanti di essi vedano lo Stato protagonista: da Tim, a Mps, a Ita, a Ilva. Tutti grandi gruppi nei quali lo Stato ha investito soldi dei contribuenti in modo copioso, e che oggi fa fatica a riaccompagnare nella sfera privata.
Definire i confini dell’intervento pubblico serve esattamente a questo: evitare che lo Stato si sostituisca agli imprenditori privati, tra l’altro senza una bussola e navigando a vista.