diMaria Cristina Carratù
Era il 2015 quando Giovanni Semi, docente di sociologia urbana all’Università di Torino e studioso di mutamenti culturali urbani, ha pubblicato il saggioGentrification. Tutte le città come Disneyland?, quadro allarmante dello snaturamento delle città, e della espulsione dei residenti, sotto i colpi dell’overtourism.
Oggi, otto anni dopo, non ha dubbi: «La gentrificazione selvaggia di Firenze si è ulteriormente aggravata». E nel suoBreve manuale per una gentrificazione carina (ed.
Mimesis), in uscita proprio in questi giorni, delinea, in chiave ironica e grottesca, l’immagine purtroppo non distopica delle città trasformate dai grandi interessi immobiliari, in cui, dietro l’apparenza accattivante di un restyling “smart’’ e “green’’, degli ostelli di lusso e dei loft per la upper class, «si nascondono feroci processi di espulsione della popolazione», ovvero dei poveri e dei disagiati, nonché di aree consistenti del ceto medio. Una sempre più evidente contrazione del concetto di “bene pubblico’’, di cui è sintomo, fra gli altri, la valanga di osservazioni al nuovo Piano operativo del Comune legate, una volta di più, allo sfruttamento turistico della città, e su cui Repubblica ha raccolto nei giorni scorsi gli interventi del presidente di Confindustria Maurizio Bigazzi e del segretario generale di Cgil Firenze Bernardo Marasco.
Professore, siamo davvero di fronte a un deriva irrimediabile?
«Già a suo tempo il trasferimento di funzioni pregiate come l’Università fuori dal centro aveva segnato la resa della città storica, e la sua trasformazione in parco giochi per turisti, in una Disneyland, appunto, tappa estrema della gentrificazione.
Vent’anni di stagnazione dei redditi, l’impennata post Covid dell’inflazione, a danno, soprattutto, dei ceti meno protetti, un sempre più incerto mercato del lavoro e il recente stop al reddito di cittadinanza, hanno poi prodotto la tempestaperfetta di cui le città d’arte, come Firenze, stanno pagando il conto più salato. “Scioccato’’ dal forte aumento di inquilini potenzialmente morosi, e di un ceto medio, a sua volta impoverito, di proprietari di case, il mercato degli affitti residenziali ha stimolato la disastrosa funzione delle piattaforme digitali di offrire ai secondi una forma di auto-protezione a scapito dei primi, mentre gli stessi albergatori che se ne consideravano vittime se ne sono serviti per le loro offerte. Il tutto mentre i grandi interessi immobiliari, entrati a piè pari nel nuovo mercato degli affitti brevicon il via libera delle amministrazioni locali, hanno a loro volta sottratto risorse e contribuito ad emarginare le categorie deboli».
Ma possibile che non ci sia un modo per intervenire in questa tendenza nell’interesse di tutti, anziché solo di alcuni?
«La risposta, data la situazione generale, non è, come crede la destra, l’inasprimento degli sfratti, ma una stretta radicale sulle piattaforme, stile New York, nel nostro caso con leggi nazionali appoggiate a sentenze europee, nonché, a livello locale, una decisa iniziativa dei Comuni per far emergere gli alloggi dadestinare agli affitti non transitori. Per esempio stoppando la cedolare secca su quelli transitori e sulle case vacanze, e lasciandola a chi affitta con contratti 4 più 4, o a nuclei familiari con Isee basso, sostenendo i proprietari con inquilini morosi attraverso speciali fondi di garanzia, e tornando a investire sugli alloggi pubblici, soprattutto attraverso il recupero delle grandi proprietà demaniali inutilizzate, come le caserme, ricorrendo agli extra-gettiti della tassazione sul turismo e facendo lobbying sui governi, insieme all’Anci, per ottenere finanziamenti ad hoc. La rendita, dal punto di vista fiscale, non deve più essere così conveniente rispetto a un investimento sulle attività produttive, come invece oggi accade.
Contrastare la tendenza ad estrarre valore da un settore così trainante è difficile? Si faccia almeno in modo che lo Stato recuperi quel valore attraverso la tassazione per reinvestirlo su chi ne viene penalizzato».
La sfida di fondo, dunque, è di sottrarre la dipendenza della città dalla monocultura turistica.
«Tenendo sempre presente che la retorica della “rigenerazione’’ urbana lascia il tempo che trova se si risolve in una gentrificazione “carina’’, che non affronta i problemi reali, e sottintende invece una iniqua emarginazione, rispetto all’offerta di servizi pubblici, infrastrutture, e insediamenti di qualità, della popolazione meno privilegiata».