Non basta essere capaci di costruire coalizioni per diventare centristi
27 Giugno 2022Mattiacci 1964-’81, Roma decentramenti
27 Giugno 2022Uno era nella Decima Mas fascista, l’altro nella Brigata Ebraica. Gianfranco Iacobacci, 100 anni, racconta quel legame spezzato dal conflitto. Ma mai del tutto
«L’eroe della famiglia era mio fratello Augusto Alberto. Aveva ventisette anni, cinque più di me, e combatteva nella Decima Mas, gli incursori della Marina. Del fascismo non gli fregava niente, era solo uno splendido marinaio, forte come un leone. Poi, alla fine della guerra, quando siamo tornati tutti e due a Roma, lui era lo sconfitto, io il vincitore perché ero nella Brigata Ebraica, con gli Alleati. I ruoli si erano capovolti: io l’eroe di guerra e lui un banale impiegato. Da soldato d’élite a nulla. Un’ombra nel cuore, l’umiliazione che si è trascinato dietro fino all’ultimo giorno di vita, quando è scomparso nel mare di Livorno, proprio davanti al porto dove aveva guidato i mezzi d’assalto».
Gianfranco Iacobacci parla con voce stentorea nonostante i suoi cento anni. Seduto sulla poltrona di pelle, le mani appoggiate al bastone, ti guarda negli occhi come cercasse in uno specchio i ricordi di una vita straordinaria: «In realtà noi non abbiamo fatto nulla di speciale – si schermisce usando la prima persona plurale come se nel salotto che si affaccia su Ponte Milvio, ci fosse anche Augusto – straordinari erano i tempi che ci era toccato attraversare e pure noi avevamo paura, la stessa di tutti gli altri al fronte o nelle città bombardate». La ferita più profonda del Secolo Breve, la Guerra che ha sconvolto il mondo sacrificando gioventù e esistenze nel nome della libertà di tutti noi.
Gianfranco e Augusto, fratelli legati indissolubilmente dal mare, ma divisi dal conflitto: «Un giorno il comandante della Brigata Ebraica mi ha fatto vedere un foglio con una lista di nomi. Erano i nemici da eliminare e c’era anche Augusto. Immagini come si poteva sentire mia madre che aveva due figli in guerra e su fronti opposti. Era ancora giovane, ma quando tornammo a casa i suoi capelli erano diventati tutti bianchi…». Gianfranco fa scorrere questa storia davanti ai suoi occhi chiari e alla nostra immaginazione, come fosse un film d’avventura. Ottanta anni fa era realtà, l’esistenza vera di milioni di giovani che appena ventenni finirono nella guerra più crudele di sempre. «Dopo l’Armistizio ero imbarcato a sull’Amerigo Vespucci a Brindisi, la nave scuola degli ufficiali della Marina. Il comandante ci disse che non esisteva più la flotta e chi voleva poteva andare a casa. Tornai a Roma nel 1944 dopo essere passato per la Sicilia a cercare un compagno dell’accademia, ma a Brindisi feci in tempo a incontrare il re. Anzi, a salvarlo… ». I regnanti italiani e la fuga a Brindisi dopo l’8 settembre del 1943, una cicatrice nella storia e nella dignità del Paese. «Io ero un buon canottiere. Stile e polso mi erano valsi il ruolo di capo voga dell’armo da regata. Un giorno Vittorio Emanuele si presentò sulla Vespucci e chiese di uscire in mare con l’armo d’onore: i vogatori erano dieci in tutto e al primo colpo di remi vidi il re, che stava a poppa al timone, perdere l’equilibrio. Lo afferrai al volo per la falda del cappotto prima che cadessein acqua…». Poi il ritorno a Roma, il viaggio infinito di tutti gli sbandati: «Riabbracciai mia m adre e mio padre, colonnello in pensione. La città era liberata. Mio fratello era nella Decima Mas a Livorno e alla Spezia, io passavo le giornate al fiume con gli amici, all’incrocio tra Tevere e Aniene. Ma mi sentivo un verme, così provai ad arruolarmi da volontario con gli Alleati, all’inizio senza riuscirci perché c’era stato lo sbarco in Normandia e pensavano che la guerra stesse per finire. Mi richiamarono dopo la controffensiva tedesca nelle Ardenne: due settimane di addestramento e fui arruolato come ufficiale italiano di collegamento nella Brigata Ebraica, inquadrata nell’esercito inglese ». Gianfranco non è ebreo, ma nella Brigata, soprattutto tra gli ufficiali, c’erano anche i cattolici.
Augusto, intanto, era nell’altra metà d’Italia rimasta nazifascista: «Però a me e a mio fratello non era mai importato nulla del fascismo, semplicemente eravamo nati e cresciuti nella dittatura. Mi ricordo che, ragazzino, una sera andai per curiosità a vedere Mussolini a Piazza Venezia: nella calca persi una scarpa e tornato a casa presi le botte da mia madre. Erano scarpe nuove di zecca e in quei tempi, nonostante la pensione di papà, non è che ce la passassimo tanto bene».
La Brigata Ebraica fece in tempo a combattere negli ultimi mesi della guerra, in Romagna a nord di Ravenna, la spallata finale ai nazisti in Italia. Gli scontri sul fiume Lamone, la battaglia del Senio: «Mi spostavo in camion o in motocicletta. Ho sparato, ho camminato tra le mine anti- uomo. Ho avuto paura», dice Iacobacci senza dilungarsi troppo, come se un pudore della memoria gli impedisse di recuperare i ricordi più pesanti. Allora e ancora oggi i pensieri ricorrenti sono per Augusto; «Lui per me è sempre stato un esempio di coraggio». E un angelo custode, come nei primi tempi dell’accademia quando anche Gianfranco aveva provato ad entrare nei mezzi d’assalto: «Il giorno del test di ammissione, a Bocca del Secchio a Livorno, durante le prove con il casco da palombaro ho perso i sensi, mio fratello si è tuffato e mi ha salvato dall’annegamento». Nemici loro malgrado, si rivedranno solo a guerra finita e ancora oggi quando Gianfranco parla del fratello trattiene a stento l’emozione. Un vuoto nell’anima che neanche cento anni di vita hanno potuto colmare: «Lui era in un campo di prigionia in Romagna.Forte del mio status di ufficiale alleato, sono riuscito a prelevarlo. È iniziata la nostra nuova vita che per lui è stata una deriva. Allora non me ne accorgevo, ma se ci ripenso adesso era evidente che il trauma della guerra e, soprattutto, l’umiliazione della sconfitta lo angosciavano. Avevamo una barca, laTerror do mundo, sulla quale sfogavamo la nostra passione di marinai. Lui nelle manovre e nelle uscite era sempre spericolato, fino a quel maledetto giorno quando, in una delle rare volte nelle quali io non ero a bordo con lui, è caduto in mare davanti a Livorno, proprio dove vent’anni prima era iniziata la sua avventura di incursore. Il suo corpo non è stato mai più ritrovato».