
Le banche giocano, l’arbitro pure. I cittadini pagano
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Il mio primo ricordo? Il motorino Solex che mi regalò mio padre. Avevo 14 anni, mi sembrava di volare, padrone del mondo. Ma forse ancora più forte è il ricordo di quando avevo sette anni: al Tennis Club Parioli, dove papà faceva il custode, arriva il conte Vaselli con una macchinina telecomandata. Per noi che giocavamo con Pinocchio di legno fu uno shock: era la modernità.
La mia prima racchetta me la costruì papà, tagliando il manico a una da adulto. Giocavo contro il muro, dove lui aveva disegnato la rete. Ho respirato tennis da sempre, ma anche politica: mio nonno era socialista, amico di Nenni, e a casa si leggeva l’Unità. Belardinelli, il mio maestro, era fascista e scommetteva sui cani: lo prendevo in giro con il Manifesto in mano.
Pietrangeli? Un fratello maggiore. Ma polemico, vanitoso, spesso indifendibile. Lo difendevo solo io in Coppa Davis, poi non ce la feci più. Con la squadra eravamo uniti: io, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli. In Cile indossai la maglietta rossa: un gesto semplice ma importante, contro Pinochet.
Borg era l’opposto di me, per questo andavamo d’accordo. Lo battei due volte a Parigi, anche perché il suo gioco si adattava al mio. Connors era antipatico, McEnroe geniale. Sinner oggi è costante come un caterpillar, Alcaraz ha punte da fenomeno. Federer? Il tennis.
Dicono che avrei potuto vincere di più. Forse. Ma sarei stato più felice? Ho amato molto, sbagliato anche. Oggi ho un grande amore, mi sono risposato, vivo a Treviso. La morte? Mi fa meno paura di quanto dica. Sono un cinico, sì. Ma anche un sentimentale.