di Anna Zafesova
«Io non dovevo essere qui», dice Yulia Navalnaya, seduta composta a guardare la telecamera mentre fa l’annuncio che tutti aspettavano. L’ultima volta che ha visto suo marito vivo è stato due anni fa, la prossima volta che lo vedrà almeno da morto arriverà forse tra due settimane, forse più, o forse mai. Ma la vedova dell’oppositore di Putin – che negli ultimi mesi aveva optato per un profilo pubblico molto discreto, forse per proteggere la sua famiglia – ha deciso di combattere: «Proseguirò la battaglia di Alexey», promette, apparendo per la prima volta sul suo canale YouTube, in un video che fa quattro milioni di visualizzazioni soltanto nelle prime ore. Lancia un’accusa molto diretta e minacciosa: «Vladimir Putin ha ucciso mio marito… il padre dei miei figli… la persona che amavo di più… Sappiamo il motivo concreto per cui l’ha ucciso, e presto ve lo racconteremo». E aggiunge l’accusa al regime che continua a nascondere il corpo dell’oppositore morto il 16 febbraio: «Stanno aspettando che spariscano i segni di un ennesimo veleno tipo Novichok».
È una dichiarazione di guerra, una promessa di vendetta, un programma politico. Era quello che il popolo orfano del dissenso voleva sentirsi dire. «Dobbiamo lottare ancora di più», annuncia Yulia, e chiede ai sostenitori di Navalny «più rabbia, più ira, più odio verso quelli che osano uccidere il nostro futuro». Nella sua prima prova da leader, la 47enne signora Navalnaya passa l’esame: usa il “noi” più dell’ “io”, e dice ai seguaci di suo marito: «So che avete perso non meno di quello che ho perso io», e propone di «mettersi al suo fianco». È composta, ma non gelida, è addolorata, ma controllata, è assertiva, ma ricorda che la sua legittimazione viene dalla memoria dell’uomo che «avrebbe dovuto ora sedere al mio posto», e insieme al quale «è stata uccisa la metà del mio cuore e della mia anima». Pronuncia tutte le parole-chiave di suo marito, «amore», «coraggio», «speranza», ma mette da parte ogni tono ironico tipico di Navalny: gli scherzi sono finiti, la lotta politica in Russia ha assunto definitivamente i toni di una tragedia, e ogni compromesso – se mai era stato cercato, nei tentativi di far sopravvivere il dissidente e i suoi seguaci in carcere – è ormai impossibile. Suo marito scherzava che era lei la «più radicale della famiglia», e Yulia sceglie con cura parole spietate: «Alexey è morto dopo tre anni di tormenti e torture», accusa, e pronuncia, per la prima volta, quello che si vedeva nel volto e nel corpo emaciato del detenuto Navalny: «Per tre anni è stato torturato con la fame».
Scatta dunque il piano B di cui si parlava da anni, da quando Yulia ancora negli anni Dieci gestiva i social di Alexey durante i mesi degli arresti domiciliari, dopo l’avvelenamento nell’agosto del 2020, e nel gennaio 2021, quando l’oppositore è tornato in Russia con la moglie al suo fianco per farsi arrestare. All’epoca, la first lady della protesta aveva scelto di farsi da parte. Ora, sulle macerie di un movimento al quale oggi propone come parola d’ordine «non arrendersi», perché già questo sarebbe molto, accetta di prendere il posto del marito per «non condividere soltanto il dolore, ma la rabbia». Una decisione che si era intuita già dal giuramento di vendetta che aveva pronunciato nelle prime ore, dalla tribuna della conferenza sulla sicurezza di Monaco, e che nei tre giorni successivi era apparsa sempre più probabile, anche dall’agenda degli incontri di Yulia: prima Sviatlana Tikhanovskaya, un’altra moglie che ha preso il posto del marito incarcerato per sfidare il dittatore belarusso Aleksandr Lukashenko, poi Ursula von der Leyen, Anthony Blinken, Hillary Clinton, in una serie di abbracci che non sembravano soltanto un rito di condoglianze, ma anche una investitura politica. Una scelta probabilmente inesorabile quanto difficile. La carismatica vedova di Navalny è il simbolo perfetto della protesta, e gli applausi che le stanno arrivando da ogni parte della frammentata galassia del dissenso russo lo dimostrano. Ma dovrà guidare il movimento nel deserto della repressione, dell’esilio e delle carceri, in una missione quasi impossibile di riportare in Russia un’azione politica che non comporti soltanto il martirio. Yulia ripete il mantra di Alexey, «Io non ho paura e non abbiatene nemmeno voi», ma sarà difficile, soprattutto per chi resta nel Paese governato da Putin e che non ha, a differenza dei Navalny, i figli al sicuro in Occidente.