Il doppio strike di Israele, che nello stesso giorno ha colpito il consolato iraniano a Damasco, uccidendo tra gli altri uno dei più importanti generali di Teheran, e un convoglio di cooperanti a Gaza, ammazzando sette operatori dell’Ong World Central Kitchen, rischia di alimentare in Medio Oriente una doppia emergenza, militare e umanitaria, dalle conseguenze imprevedibili.
Sommata all’annunciata intensificazione della guerra russa in Ucraina, che era attesa per maggio ma sembra ancora più imminente e brutale dopo l’attacco jihadista alla Crocus City Hall di Mosca attribuito dal Cremlino ai servizi di Kiev, la doppia escalation nell’area che va da Gaza all’Iran può avere un effetto devastante sui fragili equilibri sui quali poggia oggi la pace in Europa: con due guerre alle sue porte, che sembrano, ogni giorno che passa, scalare verso l’alto, anziché verso il basso.
Tutti ne sono «allarmati», come ha detto il portavoce per la politica estera dell’Unione europea, Peter Stano, sottolineando come l’attacco a un edificio diplomatico (il consolato iraniano a Damasco) metta Israele in una posizione a dir poco delicata. E gli Stati Uniti hanno tenuto a precisare di non essere stati informati del colpo, pianificato e mirato se, come pare, nella palazzina consolare erano in corso una riunione di coordinamento tra il capo di tutte le operazioni militari dei Pasdaran nel Levante ed esponenti del cosiddetto “Asse della Resistenza” (Hamas, Hezbollah e Houti) allargato ai palestinesi.
Benjamin Netanyahu ha parlato di «tragico errore» per l’uccisione dei sette cooperanti dell’Ong Wck, fondata dal famoso chef José Andrés, ammettendo la responsabilità dell’Idf. Ma intanto la crisi umanitaria a Gaza ha raggiunto livelli insostenibili e inaccettabili. E anche Donald Trump sembra aver perso la pazienza con il premier israeliano, del quale era un irriducibile sostenitore. A due giornalisti diHayom ha detto testualmente: «Dovete finirla con la vostra guerra.
Metteteci un punto e basta. Noi abbiamo bisogno della pace. Non si può continuare così». Alla fine dell’intervista Ariel Kahana, l’ultraconservatore opinionista del giornale, ha commentato: «Ormai entrambi i candidati americani, Biden e Trump, hanno voltato le spalle a Israele».
Ora la miccia della polveriera mediorientale è in mano all’Iran. E molto dipenderà da quando vorrà accenderla e ancor più da che potenza di fuoco vorrà dare alla sua vendetta. La Guida suprema Ali Khamenei ha promesso che «il malevolo regime di Israele sarà punito». E uno dei suoi principali assistenti, Ali Shamkhani, ha postato su X che «al di là del fatto che Washington fosse informata o meno del piano di Israele, ciò non cambia il fatto che gliStati Uniti hanno una responsabilità diretta per questo crimine e per le sue conseguenze».
È vero che dal 7 ottobre in poi, dopo il massacro perpetrato da Hamas e la risposta israeliana a Gaza, l’Iran ha mostrato di voler evitare un conflitto con Israele. Ma è anche vero che stavolta l’Iran è stato attaccato direttamente sul suo territorio (una sede consolare è territorio dello Stato che rappresenta) e che Mohammad Reza Zahedi, pur essendo l’undicesimo militare di rango ucciso in Siria dagli israeliani dopo il 7 ottobre, è il più alto, tra i morti, nella gerarchia dei Guardiani della rivoluzione dopo il “mitico” Qassem Soleimani.
Perciò non può non esserci una risposta da parte di Teheran e dal livello della risposta dipende quanto sarà pericolosa l’escalation militare di queste ore. Dopo la morte di Soleimani, quattro anni fa, l’Iran lanciò un attacco missilistico contro una base americana in Iraq, avvertendo però in anticipo. Stavolta potrebbe spingersi oltre, magari non direttamente, ma attraverso i suoi alleati. Ci sono stati, in questi giorni, attacchi da parte degli Houti con droni in territorio israeliano, nella zona meridionale tra l’aeroporto di Ramon e il porto di Eilat; e anche contro una base americana in Siria.
Secondo Yaakov Amidror, che è stato consigliere per la sicurezza militare di Israele ed è stato intervistato dalNew York Times, le opzioni sono molte, comprese, nell’ottica dell’occhio per occhio, dente per dente, l’uccisione di un alto comandante israeliano all’attacco a un’ambasciata israeliana all’estero (ha ricordato che nel 1992 l’ambasciata di Israele a Buenos Aires fu bombardata dalla Jihad islamica in risposta all’uccisione del leader di Hezbollah Abbas al-Musawi).
Se per l’escalation militare le opzioni sono molte e fanno rimanere con il fiato sospeso, per quella umanitaria, dopo l’uccisione dei sette cooperanti, di fiato ne resta davvero poco, anzi è proprio finito. E l’unica soluzione per Netanyahu, o chi verrà dopo di lui (e c’è da augurarsi al più presto possibile, anche se la situazione militare non fa prevedere tempi brevi), è che la questione palestinese venga affrontata a fondo. Con grande coraggio e saggezza, al tempo stesso, David Grossman ha proposto di includere i palestinesi negli Accordi di Abramo, firmati nel 2020 da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, e che sembravano aprirsi anche ad altri, Arabia Saudita per prima. Ora sembra un percorso chiuso, ancora di più dopo quanto è accaduto a Damasco e a Gaza. Ma è proprio in questi momenti che bisogna avere la forza di cercare la luce alla fine del tunnel. E riconoscere, da parte di tutti, Israele per primo, che la questione palestinese non può più essere rimandata.