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28 Luglio 20221919-2022 È morto (nel giorno dei suoi 103 anni) lo scienziato inglese: per lui il pianeta era un superorganismo
di Massimiano Bucchi
Un giorno i genitori di James Lovelock stanno andando con il figlio al Victoria & Albert Museum. Il bambino, che all’epoca ha sette anni, chiede un cambio di programma: mentre loro vanno al Victoria & Albert, lui potrebbe per favore andare da solo allo Science Museum? Comincia così a rivelarsi la precoce vocazione di quello che è stato definito «il grande visionario scientifico del nostro tempo». Sempre fuori dagli schemi e sempre dentro i problemi, sempre restio a imprigionare le proprie idee e le proprie intuizioni dentro i rigidi steccati disciplinari e accademici. James Lovelock è morto nella serata di martedì, proprio nel giorno in cui ha compiuto 103 anni, nella sua casa nel Dorset, in Inghilterra.
Newton amava descriversi come un bambino che gioca sulla spiaggia, contento di trovare un sasso più liscio o più bianco degli altri. Lovelock non si vide mai come uno scienziato «regolare». «Semplicemente — spiegava — a me viene spontaneo rispondere quando qualcuno dice: sarebbe bello che inventassero qualcosa per fare questo e quest’altro, ecco, è allora che mi si accendono le lampadine». Le lampadine cominciano ad accendersi già negli anni Quaranta quando Lovelock, giovanissimo, lavora per l’esercito britannico. L’incarico è di misurare la temperatura a cui le cellule della pelle sono irreparabilmente danneggiate dal calore provocato da esplosioni o fiamme. L’indicazione è di sperimentare sui conigli, ma il giovane Lovelock non se la sente e preferisce farlo su sé stesso. A lenire le ustioni per fortuna c’è un bravo medico di nome Frank, che ogni tanto invita anche Lovelock a cena a casa sua. Ed è così che una sera Lovelock si trova a tenere in braccio il neonato Steven Hawking mentre i genitori preparano la cena.
Un’intuizione di quegli anni tornerà nell’ultimo scritto di Lovelock, Novacene. L’età dell’iperintelligenza (2019, in Italia per Bollati Boringhieri, 2020): «Le alte temperature ci rendono vulnerabili». Vale per la nostra pelle, così come per gran parte degli organismi viventi. Al National Institute for Medical Research gli affidano un altro incarico che prevede analisi sui criceti per capire come una certa composizione di acidi grassi nel sangue consenta agli animali di sopravvivere più a lungo in stato di congelamento. Ma gli strumenti di analisi disponibili all’epoca sono grossolani e costringono sacrificare centinaia di esemplari. Lovelock sviluppa allora un prototipo di quello che diventerà il rilevatore a cattura di elettroni, uno strumento formidabile per rilevare la presenza di elementi chimici in un campione; sarà determinante, tra l’altro, per comprendere il ruolo dei clorofluorocarburi (Cfc) nella riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera.
Nel 1961 la Nasa lo invita a far parte di un gruppo di lavoro dove si studia, tra l’altro, la possibilità di rilevare forme di vita su Marte. Lovelock inizia a criticare il lavoro dei biologi del gruppo, finché uno dei capi lo sfida: «Ma tu come faresti a rilevare vita su Marte?». Lovelock, senza esitazione, risponde che cercherebbe una riduzione di entropia. Bene, risponde il capo: ti do due giorni di tempo per mettere in pratica la tua idea. L’esperimento ideato da Lovelock diventa parte del progetto Viking. Quello strumento è ancora su Marte. «Quando guardo il cielo mi diverte pensare che lassù ci sia una piccola cosa inventata da me».
Ma la vera svolta avviene quando Lovelock applica la stessa idea alla Terra. Di qui l’idea di concepire il nostro pianeta come un «superorganismo», un sistema vivente autoregolato, in cui le stesse forme di vita contribuiscono a mantenere in equilibrio temperatura e composizione dell’atmosfera. Il termine «Gaia» (ispirato all’antica divinità greca della Terra) gli viene suggerito una sera al pub dal vicino di casa, lo scrittore e premio Nobel per la letteratura William Golding. Lovelock lo definì in seguito «uno di quegli incidenti felici che sono stati la stella polare di tutta la mia vita. Per divulgare una teoria così ambiziosa sulla Terra, devi darle un nome come si deve, mi disse Golding». Lovelock lo utilizza per la prima volta nel 1972 in un articolo scientifico, e poi in un libro divulgativo di grande successo. L’accoglienza iniziale tra gli scienziati è tiepida, ma col tempo l’ipotesi trova sempre maggiore attenzione e il termine entra nel linguaggio comune. Oggi Gaia non se la passa molto bene. «I pianeti, come gli esseri umani, diventano più fragili con l’età e il nostro è un pianeta anziano che orbita intorno a una stella di mezza età».
L’ultimo scritto di Lovelock guarda oltre l’Antropocene e verso la prossima era geologica, che lo scienziato definisce «Novacene». «L’Antropocene è l’era in cui l’energia solare è stata convertita in lavoro, così gli esseri umani che si occupavano di agricoltura sono stati sostituiti dalle macchine e si sono potuti dedicare ad altre attività. Quello che stiamo facendo oggi, e che ci conduce nel Novacene, è la conversione di energia solare in informazione, qualcosa che non era mai stato fatto prima». Se non ci riusciranno gli esseri umani, forse a salvare il pianeta saranno per Lovelock «cyborg» in grado di autoprogrammarsi a partire dalle intelligenze artificiali costruite da noi. «Il caso vuole che la temperatura più elevata che consente di sopravvivere sia alla vita organica sia elettronica sul nostro pianeta sia di 50°C». E forse un giorno, chissà, le nuove macchine ci terranno accanto a loro così come noi facciamo con le piante o gli animali da compagnia.
Quando lo intervistai, gli chiesi se dopo oltre cento anni passati sul nostro pianeta fosse ancora ottimista sul futuro. Socchiuse gli occhi e sorrise come faceva quando ti raccontava come gli era venuta una delle sue idee rivoluzionarie. «Penso di sì. Vedi, la vita è una cosa potente».