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di Arturo Carlo Quintavalle
«saper guardare è un’arte, è l’arte del poeta. Il guardare è tanto creativo quanto il fare: cosa poteva soddisfare di più il mio fare se non il mezzo fotografico? Dal primo istante, per me, la fotografia è stata un’epifania; l’immediata coincidenza delle mie emozioni, dei dubbi, della mia inquietudine e la possibilità di rendere reale e tangibile tutto ciò attraverso la fotografia. Dopo tanti anni di amore, riesce ancora a meravigliarmi». Così Mimmo Jodice (1934) riflette sulla sua storia dentro e per la fotografia.
La citazione conclude il catalogo della rassegna di Udine (Mimmo Jodice. L’enigma della luce, Castello, fino al 4 novembre) che propone una sintesi della lunga storia di Jodice mentre, a chiudere la rassegna di Napoli (Mimmo Jodice. Napoli metafisica, Castel Nuovo, fino al 1° settembre), Vincenzo Trione — che la cura — scrive: «Una città metafisica, lirica, attonita, spaesata, silente, folgorata in una dilatata stasi, talvolta percorsa da fugaci rivelazioni, fermata in un bianco e nero inconfondibile, lontana da ogni oleografia, da ogni rappresentazione di cronaca». E, a porre l’accento su questo aspetto ecco, a confronto delle foto, alcuni dipinti di Giorgio de Chirico, meditazioni sul tempo, sulla lunga durata come le fotografie di Mimmo Jodice.
Ma Jodice, agli inizi, è stato soprattutto sperimentatore del linguaggio, la sua è stata un’attenta, partecipe, a volte ironica ricerca sul medium fotografico. Così, agli inizi della mostra di Udine, vediamo Paesaggio interrotto, dove una veduta affastellata di edifici è spezzata da un blocco di case strappato e ricollocato nel sistema; lo stesso procedimento caratterizza altre immagini come Frattura (1971) e Paesaggio a colori (1978). E poi, ancora, ecco Ferrania, 1976, una busta della carta sensibile 24×30 di Ferrania (un tipo di carta fotografica prodotta dalla storica azienda ligure) con, in piccolo, la firma «Mimmo Jodice»: insomma un objet trouvé nel segno di Dada mentre in Vera fotografia (1978) si riprende una mano che regge una matita sul foglio mentre la scritta, aggiunta dopo, nega che questa sia una «vera fotografia».
Jodice si inserisce nel dibattito sul linguaggio della fotografia, sul suo statuto, e opera in parallelo ad altri protagonisti come Ugo Mulas con le sue Verifiche (1970-1972) o come Nino Migliori con le sue Ossidazioni, i suoi Pirogrammi, i suoi Cli ché Verre, i suoi Fotogrammi che iniziano negli anni Cinquanta e che proseguono nel decennio seguente. «Sin dall’inizio della mia carriera — scrive Jodice — ho fotografato la realtà senza però fare del fotogiornalismo, ovvero la cronaca di ciò che accade. Non mi interessava la narrazione o la descrizione degli eventi. La mia idea è stata, piuttosto, quella di realizzare una sorta di raccolta del malessere e della sofferenza che le problematiche sociali tracciano sugli uomini… Tutte le poesie di questo periodo sono simboli visivi del dolore umano».
Con queste parole di Jodice si introduce la seconda parte della mostra di Udine. Una foto — Madonna dell’Avvocata, Maiori — che fa parte del ciclo Chi è devoto (1971), propone un complesso racconto: le figure sono consapevoli di essere riprese, alcune guardano in macchina, dunque l’immagine, non rubata come teorizzava Henri Cartier-Bresson, mostra un uso straordinario della luce che entra nella grotta e profila in basso le figure e si dilata sul gruppo in piedi e sul cerchio delle persone sedute e ridenti. Poi ci sono le immagini tratte da Il ventre del colera (1972): un ragazzino, le mani incrociate sul petto contro un fondo che dal grigio passa al nero mentre un altro ragazzino — in Marlboro, Napoli, 1975 — avvolto in una plastica, tiene in mano una stecca di sigarette. L’impegno di Jodice, la sua attenzione all’uomo è sempre più evidente, così ecco il busto di un operaio di Terni (1974): con la maschera sul viso, diventa una figura terribile di un mondo diverso.
Altrettanta intensità hanno le foto dell’Ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, Napoli, 1977, con l’uomo appoggiato all’inferriata o l’altro che si nasconde dietro un telo celando il viso. Il bianco e nero per Jodice è trascrizione dei colori del mondo, trascrizione che prepara stendendo lui stesso lo strato sensibile delle carte e sviluppandole in camera oscura dove inventa prodigiose gradazioni dal grigio al nero più denso per scoprire il mistero nel quotidiano. In apertura della sezione Napoli surreale della mostra di Udine, Jodice scrive: «Il vuoto, l’assenza, il silenzio diventano parole chiave del mio lavoro. La questione del tempo è fondamentale: l’atmosfera è sospesa, metafisica, rarefatta».
Anche le foto della mostra di Napoli aiutano a capire: in apertura ecco un Interno metafisico con officina e vista sulla piazza (1969) di Giorgio de Chirico, a confronto con Vedute di Napoli, Opera 57, Via Marina, 1980 , dove il riquadro bianco corrisponde alla cornice nel quadro di de Chirico mentre la foto di una forma del Cimitero nuovo (1980) regge il confronto delle figure senza tempo del pittore di Volos.
Jodice scopre i luoghi, i depositi dove si lasciano sculture, mobili, arredi. Sono spazi della memoria e in fondo «memento mori», come in Napoli, Chiesa San Vincenzo alla Sanità, 1986, o come in un’altra immagine, una figura avvolta nella plastica, nella stessa chiesa. E poi, ancora nella mostra di Napoli, ci sono le automobili, ferme in una piazza, isolate e avvolte nei loro sudari come in Vedute di Napoli, Opera 29, Vico Egiziaca a Pizzofalcone; ancora, la grande ricerca sul Real Albergo dei Poveri (1997) mostra spazi sterminati, vuoti sospesi, dove la composizione dei frammenti, dei resti, è rivelazione di un grandioso Merzbau (costruzione astratta che si evolve nel tempo, con oggetti e materiali che diventano un accumulo di memorie; il termine proviene dell’artista dadaista tedesco Kurt Schwitters).
Anche la ricerca La città invisibile (1990) è impressionante: di una città come Napoli consumata dalle cartoline e dalle vedute ripetitive, usurate, Jodice scopre lo spazio irraggiato di luci di Castel dell’Ovo (1990) o i dilatati orizzonti di Bagnoli (1990). Nella sezione Archi, sempre della rassegna di Napoli, un dipinto di de Chirico, Piazza d’Italia con fontana (1965) è posto in parallelo con una veduta del Real Albergo dei Poveri (1987) e con Napoli, Fontana del Gigante, 1981. Jodice dunque ha riflettuto sulle immagini di de Chirico e sugli spazi sospesi della Torino raccontata da Nietzsche, ma insieme ha scoperto la tensione dell’inusitato, del vero e delle sue ambiguità che sono nei quadri di René Magritte.
Torniamo alla mostra di Udine: ci sono qui altre ricerche di Jodice che impongono una riflessione sulla durata. Così ecco l’antico, ecco il Mediterraneo culla della nostra civiltà, anzi delle nostre diverse culture, che Jodice introduce così: «Con questa ricerca continua la mia lunga riflessione che da anni vado sviluppando sulle origini e sull’antica cultura del Mediterraneo, sulla persistenza del passato nel presente e insieme su me stesso, figlio di quelle antiche genti che hanno costruito la nostra civiltà». E qui ecco un gruppo di immagini fra le più sconvolgenti come Atleti della Villa dei Papiri, 1986, dove le ombre e le foto dei bronzi mimano il movimento delle sculture che ci osservano: infatti la messa a fuoco delle riprese è sui loro sguardi che ci trafiggono come lo fanno i volti della Stazione Museo della metropolitana di Napoli battezzata Anamnesi da Jodice, che aggiunge: «Chi cammina incontra questi volti che hanno visto vicende lontane; incrocia gli occhi spalancati o la tranquillità espressiva di questi visi ritrovando in essi forse, come me, la propria inquietudine interiore».
La mostra di Udine propone, alla fine, una chiave per meglio riflettere sulla ricerca di Jodice che riprende i luoghi del limite, quello della terra che affonda nel mare, del mare che si sfrangia toccando la riva o uno scoglio vicino. «Il mare — scrive Jodice — per me è luogo privilegiato dove si incontrano realtà e sogno… Il mare non è il mare del turismo e del paesaggio delle coste, piuttosto il mare a cui guardo è eterno, lo stesso mare come lo hanno vissuto secoli e secoli fa i primi naviganti, lo stesso mare che vedranno gli abitanti della Terra in futuro. La linea d’orizzonte è l’infinito e le onde rappresentano l’eternità. Sul mare il tempo si arresta definitivamente». E così converrà riflettere su queste immagini sublimate nella lunga durata come Dormiente, Opera n. 2 Trentaremi (2000), Attesa, Opera n. 1, Sibari (2000), Marina di Licola, Opera n. 3 (2008).
Dobbiamo essere grati a Mimmo Jodice e a sua moglie Angela che lo accompagna dolcemente, da sempre, passo dopo passo, di questi sessanta e passa anni di creazioni, valori assoluti nella storia della fotografia. Come le vedute meditate dei cieli di Ansel Adams, come le architettate vedute di città di un altro collega fotografo, Walker Evans. Ma anche come le poesia di Eugenio Montale. Quella di un mare altro, ma non distante.
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