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Helmut Failoni
A creare il collegamento Zoom con «la Lettura» ci ha pensato addirittura lui. «È la prima volta che lo faccio da solo e devo ammettere che non è stato affatto difficile», dice, accennando un sorriso quasi impercettibile al di là dello schermo del computer dalla sua casa di Londra. Jonathan Coe è inconfondibile per almeno tre cose, fra quelle che ci sono date a sapere: per la sua scrittura innanzitutto, per la sua estrema gentilezza e per una chioma di capelli grigio chiarissimo sempre curata e in ordine.
Ora, nel corso di questa conversazione, si cercherà di scoprire e raccontare un altro aspetto importante, forse per alcuni anche inaspettato, della personalità di questo grande scrittore britannico: la musica. Non parliamo però soltanto dell’amore per la musica — quello è piuttosto noto — che trasuda da gran parte dei suoi romanzi. Ne citiamo uno su tutti: The Rotters’ Club del 2001, tradotto da Feltrinelli con il titolo La banda dei brocchi. The Rotters’ Club è il titolo del secondo disco (1975) del gruppo di rock progressivo Hatfield and the North, che apparteneva alla cosiddetta «Scena di Canterbury», molto in voga fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo — resa celebre da nomi come gli Henry Cow, i Soft Machine, Robert Wyatt… — e alla quale Coe, per sua stessa ammissione, è particolarmente legato. Avvicinandoci ai giorni nostri, anche il suo Middle England (Feltrinelli, 2018) ha una sua pulsazione sonora interna e imprevedibile, che sfiora, fra le tante, la maestria melodica di Gabriel Fauré e la disperazione di Amy Winehouse.
Coe però la musica la compone e la esegue anche: è principalmente tastierista, ma si sa muovere bene anche sulla chitarra. Per anni ha suonato, soprattutto in solitudine, per sé stesso, con qualche eccezione sul palco per alcuni reading con altri musicisti. Poi ha inciso quattro dischi — raccolgono composizioni realizzate nell’arco di un trentennio, alcune rielaborate, altre rimaste intoccate — reperibili sulla piattaforma digitale bandcamp.com. Nel 2002 Coe ha pubblicato qui 9th & 13th (basato sull’omonimo racconto) con Louis Philippe e Danny Manners; nel 2015 è uscito Unnecessary Music; nel 2021 Invisible Music e l’Ep Seascape (con Alberto Callegari e Jeremy Gregg). Negli ultimi due anni l’attività musicale di Coe si è intensificata. Dal vivo. Con l’Artchipel Orchestra, guidata da Ferdinando Faraò, lo scrittore ha fatto cinque concerti in veste di tastierista e inciso un disco con musiche sue, pubblicato dalla rivista «Musica Jazz» nel mese di novembre dell’anno scorso. Il disco, intitolato semplicemente Musiche di Jonathan Coe, contiene cinque composizioni riarrangiate dall’Artchipel Orchestra, e nell’annuale «Top jazz referendum» è stato appena giudicato secondo miglior disco italiano, mentre il gruppo di Faraò ha vinto come migliore formazione.
Suonare in un gruppo presuppone e necessita di un’interazione con altre persone, mentre scrivere è un lavoro solitario. Sono due situazioni opposte: come ci si trova?
«All’inizio suonare con altre persone mi risultava abbastanza difficile, perché sono una persona timida, mentre scrivere, come dice lei, è un’attività solitaria ed è proprio per questo motivo che mi piace. Infatti negli ultimi 35 anni ho fatto letteratura da solo, in isolamento».
L’interazione con gli altri nella musica le ha creato davvero problemi?
«Negli anni Ottanta avevo addirittura smesso di suonare, perché mi trovavo in difficoltà con i rapporti di potere che si instaurano inevitabilmente quando ci si trova all’interno di un gruppo musicale».
Facendo un grande salto temporale in avanti, cos’è accaduto con l’Artchipel Orchestra — e loro sono in tanti — con la quale ha fatto già cinque concerti?
«Questa orchestra ha in qualche modo risolto il problema».
Come? Definitivamente?
«Il fatto che in questa formazione ci sia un leader, Ferdinando Faraò, significa che alla fine di tutto è la sua parola quella che conta. Questo risolve la maggior parte delle eventuali argomentazioni».
Poi suonate jazz, che è la musica dove l’interazione conta da sempre più che in altri generi…
«Il jazz è un tipo di musica molto specifico: ti devi concentrare sull’interazione con gli altri e lo devi fare in tempo reale. C’è molto contatto visivo, ci si guarda di continuo, devi ascoltare quello che stanno suonando gli altri e in alcuni momenti devi “sopprimerti” ed entrare a far parte di un ensemble più grande, dialogare con gli altri, tranne quando stai facendo un assolo, che è il momento in cui ti sono concesse le luci della ribalta».
Ha cambiato dunque completamente atteggiamento ora?
«Prima ero teso e nervoso quando dovevo suonare con gli altri. Adesso mi piace l’idea di potermi letteralmente perdere in qualcosa di più grande, abbandonando la mia personalità ma allo stesso tempo esprimendola. Adesso capisco mia moglie che da una decina d’anni canta in coro e lo fa con grande entusiasmo. C’è qualcosa di gioioso, qualcosa da condividere con gli altri. In quei momenti ti senti parte di qualcosa di bello e di grande».
Parlavamo di jazz poco fa. Lei che atteggiamento ha nei confronti della scrittura? Scrive di getto? Improvvisa?
«Penso molto, prima di iniziare a scrivere. Il tipo di jazz che a me è sempre piaciuto è quello delle grandi orchestre. A questo proposito sono un appassionato della musica di Duke Ellington, Gil Evans, Mike Gibbs, Neil Ardley (che è stato anche scrittore, ndr), nella quale c’è molta composizione, quindi cose scritte, ma ci sono anche molte finestre per l’improvvisazione. Ecco, è esattamente così che scrivo anche i miei romanzi».
Più nel dettaglio…
«Penso a una struttura, penso ai temi, penso alla forma del romanzo che sto per scrivere. Ma allo stesso tempo, saprò come inizierà il libro, saprò cosa succederà nel mezzo, saprò cosa succederà alla fine. Ma devi lasciare anche spazi a te stesso come scrittore, per dare vita ai dettagli e creare delle improvvisazioni quando scrivi un romanzo, perché altrimenti ti annoi, non c’è spontaneità e il libro alla fine non ti sorprenderà mai, perché non prenderà mai vita. Suonando certe composizioni di jazz, trovo che accada esattamente la stessa cosa, cioè che la struttura sia lì, la forma complessiva pure, però ogni tanto per due o tre minuti puoi semplicemente suonare quello che vuoi. E questa è una cosa bellissima».
Ascoltare il disco con la Artchipel Orchestra in alcuni punti può fare venire in mente «Music for Large & Small Ensembles» di Kenny Wheeler. Cosa ne pensa?
«È un bellissimo disco, uno dei miei album preferiti. Questo è il suono che cerca Ferdinando (Faraò, ndr), credo. Lui, Beppe Barbera, Francesco Forges, Andrea Serino hanno fatto un lavoro importante che va sottolineato. Nei brani che si ascoltano nel disco, le melodie sono mie, ma tutto il resto è loro. Bisogna dirlo. Se si ascoltano quegli stessi brani nella loro versione originale sulla mia pagina bandcamp.com ci si rende conto che sono cose piccole che durano due, tre minuti. Loro hanno preso questi brevi frammenti e ne hanno fatto qualcosa di serio, di importante. Amplificato poi dai musicisti. Io non ne sarei stato capace».
Nel 2015 ha pubblicato un disco intitolato «Unnecessary Music» (musica non necessaria). Il titolo è legato al fatto che lei è timido e si sottovaluta musicalmente?
«Beh, sì, forse in parte. Inoltre, sono consapevole di essere uno scrittore migliore di quanto non lo sia come compositore. Non sono così privo di autocoscienza da non rendermene conto. Quindi, in un certo senso, si potrebbe vedere il titolo di quell’album come piuttosto arrogante, perché implica che i miei romanzi siano necessari e la mia musica no… Potrebbe essere un’interpretazione».
Ma non sembra essere ciò a cui lei ha pensato scegliendo quel titolo.
«Ho chiamato così quel disco pensando al fatto che la musica è tutt’intorno a noi e che ne siamo quotidianamente sopraffatti. Nel mondo c’è un volume incontenibile di musica. E quando mi è venuto in mente quel titolo, ho anche pensato: ho davvero bisogno di aggiungere altri 50 minuti di musica al mondo? Amo fare musica e spero che ad alcune persone piaccia ascoltarla, ma alla fine, rispetto ai miei libri, penso che la mia musica sia probabilmente inutile».
Ma lei ha iniziato prima con la musica o con la scrittura? E a che età ha cominciato?
«Ho iniziato contemporaneamente con entrambe quando avevo nove anni e i miei genitori mi comprarono una chitarra per il compleanno».
E con la scrittura come andò?
«Più o meno in quel periodo stavo iniziando a scrivere storie che diventavano sempre più lunghe e alla fine si trasformavano in romanzi. Quindi le due cose sono state parallele. È vero che c’è stato un momento, a metà degli anni Ottanta, prima che pubblicassi i libri, in cui non sapevo davvero se avrei intrapreso una carriera musicale o una carriera letteraria, ma è stato più facile fare pubblicare i miei libri che ottenere un contratto discografico per la mia musica».
Suona ancora la chitarra?
«Sì, lo faccio quando non sto scrivendo un libro, cioè in questo periodo, perché ne ho appena finito uno (Bournville, Feltrinelli, 2022, ndr) e non ho ancora iniziato a scriverne uno nuovo. Mi sto dedicando a comporre piccoli pezzi di musica e a registrarli, principalmente con le tastiere, ma anche con le mie chitarre, una classica con corde in nylon e un paio di elettriche».
Come mai predilige le tastiere al pianoforte?
«In fase di registrazione, se utilizzo un Midi (protocollo per l’interazione fra strumenti elettronici, anche tramite computer, ndr) è più facile modificare eventuali errori commessi sulle tastiere. La maggior parte delle registrazioni che faccio sono digitali, perché sono facili da correggere, quelle audio invece devono essere suonate bene. Punto. Se sbagli, devi rifare tutto da capo».
Ci descriva un suo brano. Prendiamo la traccia nr. 3 del disco, «Erbalunga».
«È una specie di suite in quattro movimenti, probabilmente è il brano più ambizioso che abbia mai scritto. È ispirato a una vacanza in Corsica con le mie figlie, quando erano adolescenti. La musica inizia solare e idilliaca, poi diventa più complessa e dissonante, per tornare infine allegra e serena. È esattamente ciò che è accaduto con la nostra vacanza».
Quanto tempo dedica alla musica?
«Tanto, ogni giorno, fino alla notte, a letto con le cuffie. Ma non ascolto mai musica quando scrivo. La ascolto invece quando penso prima di scrivere, perché certi brani musicali mi portano altrove, mi danno stimoli, idee, stati d’animo che stavo cercando…».
Che cosa ascolta?
«Molta musica classica del Novecento, Maurice Ravel, adoro la sua musica da camera, il suo Quartetto per archi o il Trio per pianoforte e archi op. 67, poi Igor Stravinskij, Claude Debussy… Poi mi piace molto la musica dell’etichetta tedesca Ecm. In catalogo ci sono dischi splendidi. Per esempio un duo fra il vibrafonista Gary Burton e Ralph Towner… Un altro fra Paolo Fresu e Towner. A proposito: è “colpa” di quest’ultimo se suono la chitarra classica. Poi mi piace molto il lavoro di Eberhard Weber. Anche nel jazz ciò che mi attrae alla fine è la melodia».
Per Ecm ha inciso anche uno straordinario clarinettista che si chiama Tony Coe, come lei. Lo ha mai sentito?
«Sì, certo, Tony Coe. Bravissimo. Mi piace pensare che siamo parenti, perché viene dalla stessa zona della mia famiglia. Un giorno indagherò…».
Il disco in trio di Tony Coe con John Taylor e Norma Winstone, «Somewhere called Home», è di indescrivibile bellezza, non trova?
«In quel disco c’è un brano, Sea Lady, che ho ascoltato tantissimo mentre lavoravo a La casa del sonno. Quella canzone e quel romanzo li ritengo inscindibili. Un altro disco che è stato importante per me, sia come scrittore che come compositore, è A Symphony of Amaranths (1972) di Neil Ardley. Un gioiello sottovalutato».
Un suo romanzo, «The Rain Before It Falls» («La pioggia prima che cada») ha il titolo di un brano di jazz.
«È di Mike Gibbs. Gary Burton l’ha inciso per Ecm negli anni Settanta. Anche qui, romanzo e brano sono inseparabili».
Nel 2005 ha scritto un racconto, «9th & 13th». I numeri del titolo sono legati agli intervalli musicali di nona e di tredicesima?
«Sì. Sulla mia pagina bandcamp.com fra l’altro mi si può ascoltare mentre leggo questa storia con l’accompagnamento al pianoforte del mio amico Danny Manners. La storia parla di un tizio che suona il piano in un cocktail bar di New York».
Ha fatto anche reading pubblici?
«Le volte che li ho fatti ho capito che il pubblico o vuole ascoltare l’autore che legge e parla o ascoltare musica, ma non le due cose insieme. Allora ho smesso».
Da scrittore che rapporto ha con la parola cantata?
«Mi piace il suono della voce senza parole e ascoltare cantare in una lingua straniera, che non capisco. Ma non mi piace ascoltare cantare in inglese, perché le parole mi distraggono dalla musica e la musica mi distrae dalle parole, come accade nei reading. Preferisco separare le due cose. Per questo non scrivo canzoni».
Prima ha detto che non ha in cantiere un nuovo libro, ma ha già iniziato a pensare a qualcosa?
«Sì, sono nelle primissime fasi della pianificazione, ma non ho ancora iniziato a scrivere. Sto pensando alla storia, alla struttura, all’ambientazione. Quindi non sarà pronto per essere mostrato al mio editore prima di due anni».