l’intervista
di Giulio D’Antona
Il romanziere Jonathan Lethem è un passionario. Il suo impegno non è limitato alla letteratura (in Italia viene pubblicato da La nave di Teseo e il suo ultimo romanzo è L’arresto, tradotto da Andrea Silvestri), ma si concretizza nella partecipazione. La sua voce è stata tra le più potenti e il suo messaggio tra i più lucidi nel contesto del movimento Occupy, fin dal 2011, quando l’indignazione sociale esplodeva a Zuccotti Park, nel cuore di Wall Street, Manhattan.
Oggi, mentre da settimane le università americane sono in rivolta e scaraventano il loro senso di ingiustizia contro il genocidio che sta avvenendo in Palestina, osserva, da docente, i suoi studenti occupare il campus di Pomona trattenendo l’ondata di commozione che lo coglie nel vedere il fervore organizzato darsi una forma politica e combattere per la giusta causa.
È mattina in California quando lo sentiamo, e spesso, nel corso dell’intervista, deve fermarsi per scacciare un nodo di orgoglio che lo prende alla gola e gli rompe la voce.
Come va, lì?
«Bene. Gli studenti si stanno organizzando per l’occupazione degli spazi in vista delle cerimonie di inaugurazione. È un momento critico di discussione e confronto e devo dire che sono molto orgoglioso di come stano andando le cose: è tutto molto ben pianificato. Politicamente, sono ammirevoli».
Come sta reagendo l’amministrazione?
«Sono felice di dire che il corpo docenti ha votato con una maggioranza ammirevole per dare supporto e sostegno alle proteste nel senso più ampio possibile».
Non è scontato…
«Assolutamente no. Le amministrazioni dei campus sono sempre in qualche modo state colte di sorpresa, e quando si viene colti di sorpresa si alza la guardia, spesso contro gli interessi dei propri studenti. Nel nostro caso c’è molta armonia. È un bene, visto ciò che accade in altri ambienti».
La Columbia, ad esempio?
«Ad esempio. Ovviamente New York è un contesto completamente differente, specialmente perché lì il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, in certi casi di matrice sionista, è molto più forte e, in questo caso questo fattore influisce molto».
I campus hanno smesso di essere posti sicuri per alcuni studenti?
«Ci sono situazioni limite, ovviamente, e si potrebbe obbiettare che in realtà le minoranze non hanno una vita facile nell’ambiente istituzionale americano, a prescindere da quanto sia considerato liberale. Nel caso di queste proteste, però, c’è da considerare un’enorme propaganda politica da parte della destra per convincere l’opinione pubblica di una presunta ondata di antisemitismo, confusa e mescolata arbitrariamente con l’antisionismo, che in realtà esiste solo in misura molto ridotta».
Gli studenti sanno la differenza?
«Certamente! Non è un concetto difficile e tutti gli studenti con i quali ho parlato lo hanno molto chiaro. Si tratta di combattere un governo sanguinario e corrotto, non un sentimento religioso, né una tradizione, né un’appartenenza etnica. È una coerente e persistente critica rivolta allo Stato di Israele e alla sua politica di apartheid. Per non capirlo, bisogna avere un motivo preciso. Bisogna considerare che gli studenti siano mossi da una spinta priva di morale, pilotata da chissà quale tipo di odio che nei campus è inesistente».
La tendenza a sminuire le proteste studentesche è diffusa…
«È una strategia di contrarietà. Si liquidano gli studenti come perennemente mossi da un sentimento istintivo, spinti dal vento dell’impeto e generalmente privi di giudizi. Questi studenti stanno dimostrando il contrario. Stanno dimostrando un attaccamento alla causa e una lucidità nei confronti del loro obbiettivo che né la politica americana, né quella israeliana hanno mai manifestato nel corso della loro storia».
Non è la protesta dei privilegiati?
«No, proprio no. Per prima cosa perché molti degli studenti che protestano non appartengono affatto a classi privilegiate, e poi perché un campus non è una bolla sociale, ma è parte integrante della nostra società, in continuo scambio e dialogo con il resto della realtà. Da qui vengono le idee e le convinzioni che popoleranno il futuro, non bisogna dimenticarselo».
È un concetto importante…
«È il concetto fondamentale, è quello che gli studenti stanno ripetendo di continuo: questo non è uno spazio fuori dal mondo, questo è il mondo. Le università sono connesse al mondo e così anche noi; e i nostri soldi, naturalmente».
Sono punti nevralgici?
«Mettiamola così, nel mondo post-pandemico sono rimasti pochissimi luoghi dove le persone si incontrino fisicamente. Gli uffici sono spopolati e le relazioni si sviluppano a distanza. Le università sono tra i pochi nodi di scambio interpersonale che ancora esistano, se non scoppia la protesta qui, in maniera funzionale e prolifica, non resta molto altro spazio per amplificare un coro di voci».
Pensa che sarà efficace?
«È quello che stiamo tutti aspettando di vedere. Già il fatto che Netanyahu abbia denunciato pubblicamente le proteste per me è segno che le voci dei campus stanno arrivando dove dovrebbero».
C’è chi dice si tratti di una distrazione…
«È un altro argomento di contro-propaganda. Basti pensare al fatto che ogni volta che degli studenti vengono arrestati a Pomona l’invito del collettivo è quello di non perdere di vista il genocidio. Gli arrestati se la caveranno, ma l’obbiettivo è sempre quello di fermare l’atrocità di Gaza. E questa è una lezione politica importantissima».
Hanno arrestato molti studenti a Pomona?
«Trenta, finora. È parte del rischio. I membri della facoltà si sono schierati contro gli arresti, è il modo migliore per supportare il collettivo perché possa continuare a lavorare senza perdere di vista la causa».
La polizia come si comporta?
«Fanno quello che gli viene chiesto di fare. Intervengono quando vengono chiamati».
C’è un momento in cui non si può farne a meno?
«Sì. Ma spesso le amministrazioni non arrivano a quel momento, cercano di impartire ordine prima che la situazione vada fuori controllo e la interpretano a modo loro. Come conviene».
È brutale?
«È la polizia, che ormai è costantemente sotto osservazione, organizzata come un corpo militare, quindi è semplicemente brusca. La violenza si esprime in altri modi».
Per esempio?
«Quello che è successo alla UCLA, che io trovo gravissimo: il fatto di aver permesso a un gruppo facinoroso di sionisti armati di agire indisturbati per un lunghissimo lasso di tempo prima di intervenire. Questo non è solo violento e fascista, è anche vigliacco».
Ma non ha fiaccato gli animi…
«Per niente. Si ha la tendenza a considerare le proteste studentesche come la risposta di pancia dei giovani a problemi che non comprendono. La verità è che la maggior parte dei politici coinvolti direttamente nel conflitto ha perso completamente di vista la realtà e sta esagerando le proprie reazioni, sta perdendo la calma. Si sono dimenticati di cosa stia succedendo davvero. Gli studenti no. Gli studenti, in questo momento, sono l’unico gruppo organizzato e oggettivo; sono la nostra lancetta per la fine del mondo».
Dovremmo ascoltarli?
«Dovremmo affidare loro il futuro, come sarebbe ovvio visto che sono gli unici che lo stanno costruendo».