Niall Ferguson
fabrizio goria
«Zelensky teme il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ecco perché dopo l’incursione nel Kursk vuole forzare un negoziato con la Russia». Niall Ferguson, uno dei più noti storici economici mondiali, dal patio di Villa d’Este fa il punto sugli scenari globali. Anche l’esperto di Hoover Institution e Harvard è rimasto stupito dalla mossa di Kiev. «Zelensky sa che in caso di conflitto di attrito Mosca è avvantaggiata. Ed è per questo che sta facendo pressioni su Washington per utilizzare più armi sul territorio russo», dice. E lancia un monito all’Europa, che dovrà essere colto dai Paesi membri: «Dovete spendere di più in difesa. Si è perso troppo tempo».
A che punto siamo con la guerra in Ucraina?
«Nessuno si aspettava la mossa nel Kursk. La decisione di mandare truppe selezionate in territorio russo è stata una iniziativa audace e coraggiosa, ma anche piena di rischi perché le risorse militari di Kiev sono limitate. È chiaro che si tratta di un tentativo per negoziare».
Perché?
«Perché Putin ha la possibilità di vincere di attrito. In questo senso non vedo un modo in cui l’Ucraina possa vincere in questo caso. Allo stesso tempo, Zelensky è consapevole che le prossime elezioni statunitensi saranno importanti, se non cruciali».
Trump è dubbioso sul supporto a Kiev. Dobbiamo spendere di più in difesa? Spesso è un tabù in molte cancellerie.
«Non dovrebbe esserlo. Si è rimandato troppo a lungo. Non ci si può aspettare che siano solo i contribuenti statunitensi a sobbarcarsi il peso della guerra quando questa è geograficamente più vicina all’Europa. Inoltre, non c’è valida giustificazione per tenere il budget per la difesa sotto quota 2% quando durante la prima Guerra fredda era il doppio. La Germania dovrebbe considerare questo aspetto molto attentamente».
Come mai?
«Ha la capacità di salire fino al 3,5% del Pil, quasi raddoppiare la sua spesa. La sua capacità manifatturiera è elevata e spingere sulla difesa avrebbe molto senso economico. Motivi per non farlo non ce ne sono a livello di sicurezza nazionale e nemmeno sul piano economico. Quindi perché no. I giorni del cosiddetto “dividendo della pace” sono finiti».
C’è un problema di competitività in Europa. Come mitigarlo?
«Enrico Letta lo ha spiegato in modo esemplare. E la nuova Commissione europea dovrebbe prendere enormi spunti dal suo rapporto».
C’è possibilità che lo faccia?
«C’è un’altra scelta? Voglio dire, c’è un’altra possibilità se non quella di ascoltare le raccomandazioni di Letta e Draghi? Serve un’Europa più competitiva adesso, non domani. In modo che si possa agire sul mercato dell’energia, per esempio».
Quale è il rischio?
«Che l’Europa diventi un museo a cielo aperto in cui il resto del mondo va in vacanza. La scelta è molto netta. Il problema sono gli esistenti ostacoli politici. C’è un fondamentale bisogno di immigrazione economica in Europa. È un capitolo senza il quale non si possono fare ragionamenti sul ruolo dell’Europa nel resto del mondo. Però appunto ci sono problemi politici a parlare di questo tema. Che poi portano a risultati specifici».
Come quelli di Front National in Francia, di Afd in Germania, e di Fratelli d’Italia?
«Sì. Perché un conto è parlare di immigrazione regolare, un altro è di ragionare solo su quella irregolare. La prima è economicamente indispensabile. La seconda è politicamente tossica. E questo vale per ambo i lati dell’Atlantico».
Anche per l’Italia?
«Certo. È un concetto che vale per tutti i Paesi occidentali».
In un mondo sempre più diviso si è parlato a lungo di distacco dalla dipendenza dalla Cina. Meglio quello o una riduzione?
«Il distacco con la Cina non è qualcosa che si può raggiungere in poco tempo. Sono troppe le relazioni commerciali fra Usa e Cina, e fra Europa e Cina. Però c’è una via intermedia. Ovvero che non possiamo contare su asset strategici di origine cinese, come nel caso della componentistica per armamenti. Un aspetto che potrebbe diventare sempre più importante qualora ci fosse una escalation delle tensioni fra Pechino e Taiwan».
Una guerra evitabile?
«Tenendo conto che siamo già nella Seconda guerra fredda, trovo che ci siano rischi importanti. In caso di invasione di Taiwan, un decoupling sarebbe inevitabile».
È uno scenario remoto?
«Tutt’altro. Molto dipenderà dal prossimo presidente Usa».
Kamala Harris è davanti nei sondaggi.
«Un governo democratico avrebbe meno presa sui temi di politica estera. Viceversa, sappiamo cosa vuole Trump. Ovvero tariffe, dazi, protezionismo, rafforzamento della manifattura domestica. Vuole pace internazionale attraverso la forza degli Usa sul loro suolo. Cosa non sappiamo è come le politiche ultra progressiste di Harris e Walz possano armonizzarsi con un mondo così diviso».