di Anna Zafesova
Una giovane pittrice finita dietro le sbarre per avere sostituito i cartellini dei prezzi in un supermercato con disegni contro la guerra. Un anziano dissidente arrestato tre mesi dopo aver ricevuto il Nobel per la pace a Oslo. Un oppositore condannato per aver fatto su YouTube uno streaming sui civili ucraini massacrati dai militari russi a Bucha. Un diciottenne condannato per “alto tradimento” perché non voleva fare il militare in guerra. Una giornalista tartara che aveva pubblicato il libro Dire no alla guerra. Un politico liberale. Una deputata municipale di una grande città siberiana. Un attivista del ciclismo urbano.
La lista degli ostaggi che Vladimir Putin ha liberato dal suo Gulag è straordinariamente diversa da quella degli uomini e delle donne che ha voluto ottenere in cambio: il “killer con la bicicletta” che ha ucciso un indipendentista ceceno in un parco nel centro di Berlino, due hacker legati ai servizi russi che hanno rubato centinaia di milioni di dollari negli Usa, una coppia di spie russe in Slovenia, un paio di agenti dello spionaggio militare russo infiltrati in Europa come giornalisti e ricercatori, un imprenditore accusato di riciclaggio e furto di tecnologie militari americane.
Sembrano due liste che provengono da due Russie completamente diverse, che non si parlano, non si conoscono e non hanno niente in comune, e la loro appartenenza a due mondi opposti è stata confermata dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, che ieri ha coniato una nuova regola: «I nemici della Russia devono stare fuori dalla Russia, i non nemici devono ritornare a casa».
Una frase che conferma quello che il regime di Putin negava fino a ieri: in Russia esistono detenuti politici, e le condanne per “alto tradimento”, “diffusione di fake news sull’esercito russo” o “fondazione di entità estremista” (la sentenza dei tre ex collaboratori di Alexey Navalny, che secondo i suoi sostenitori doveva far parte dello scambio, bloccato proprio dalla sua morte in carcere, nel febbraio scorso) sono in realtà punizioni per aver espresso una opinione diversa da quella ufficiale, aver osato criticare il dittatore russo e l’invasione dell’Ucraina che ha lanciato. La sceneggiatura e scenografia incredibilmente complicate di questo scambio, il più importante dopo il baratto delle spie russe catturate negli Usa contro agenti americani arrestati in Russia nel 2010, non è un “ponte delle spie”: da un lato ci sono politici e dissidenti russi, insieme a una manciata di cittadini americani e tedeschi arrestati con accuse inventate, per venire trasformati in pedine di scambio per sicari e infiltrati di Mosca bruciati.
È per loro che Putin ha organizzato questo balletto internazionale di negoziati tra servizi segreti americani, russi, tedeschi e turchi, decine di aerei che volano per mezzo mondo a prelevare prigionieri da portare ad Ankara, fughe di notizie accuratamente pilotate e decreti segreti con i quali conferiva la grazia ai condannati.
Molti analisti russi e occidentali in queste ore commentano la decisione del Cremlino come un segnale positivo, di distensione, una dimostrazione che un negoziato sia possibile, e addirittura un gesto di Putin per aiutare Joe Biden e Kamala Harris, invece di concedere lo scambio soltanto a Donald Trump.
Ma la comunicazione tra le intelligence di Mosca e Washington in realtà non si è mai interrotta definitivamente, come dimostrano anche gli scambi di prigionieri russi e ucraini (spesso con mediazione turca). E la teoria che i “tecnici” che hanno negli ultimi due mesi spodestato alcuni falchi nell’entourage putiniano vogliano ora mostrare il loro volto umano viene contraddetta dalla macchina repressiva della giustizia russa che continua ad aumentare i giri.
Quello che questo scambio invece mostra di interrompere è la possibilità per la Russia che dissente di esistere, se non altro in carcere. Il gesto di spedire i principali nemici del regime in Occidente è molto eloquente: la Russia di Putin li ripudia. Peraltro, a venire scambiati sono stati quasi esclusivamente ostaggi con seconda cittadinanza occidentale, oppure dissidenti molto in vista, per i quali Mosca aveva ricevuto esortazioni da governi e organizzazioni internazionali.
Ma nel Gulag restano altri 2500 detenuti politici, senza contare i prigionieri ucraini, militari e civili: centinaia di attivisti, blogger, pacifisti, renitenti alla leva, giornalisti, volontari, politici e intellettuali. Alcuni beneficiano di campagne internazionali in loro sostengono, e possono sperare di diventare oggetto di un prossimo scambio. Altri passano quasi inosservati, come la 21enne Tatiana Laletina, appena condannata a 9 anni di prigione per “alto tradimento”, per aver mandato 30 euro a una fondazione di beneficenza ucraina. Per l'”altra” Russia non è prevista pietà.