Joan Jonas
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«Il Covid mi ha fatto realizzare che per riuscire a vivere serve sempre qualcuno, non si può essere soli». È sull’interdipendenza che insiste Koji Fukada, regista giapponese che ha presentato in concorso a Venezia il suo ultimo lavoro Love Life. Incentrato su una coppia che deve affrontare un terribile lutto, nel film – che sarà nelle sale dal 9 settembre – il piccolo nucleo famigliare si rispecchia nei grandi alveari metropolitani, in un continuo rimando tra singolare e universale, storia privata e convenzioni sociali. Abbiamo intervistato il regista a margine del festival.
In «Love Life» affronta diversi temi importanti ma riesce a farlo in maniera non programmatica. Come ha scelto il tono da dare al suo lavoro?
All’età di vent’anni mi sono imbattuto nella canzone Love life di Akiko Yano che mi ha dato lo spunto per la struttura di questa storia. Il tono del film deriva dalle parole del testo, trasposte in una forma cinematografica.
Potremmo dire che il film racconta anche una storia di amore e di disamore. Come ha lavorato sulla dinamica dei sentimenti?
Ogni volta che mi cimento in un lavoro cerco dei motivi di fondo che siano universali e saldi. Secondo me un concetto che esprime al massimo queste qualità è quello della solitudine. E per solitudine intendo quella sensazione che può essere percepita in qualsiasi momento, anche solo per un attimo, proprio quando si è all’interno di una relazione o in compagnia di un amico. La tratto in maniera sempre diversa, in questo caso c’è il dolore di una coppia e il fatto che questo dolore non può essere espresso nelle stesse modalità.
La presenza di un personaggio sordomuto implica un maggiore silenzio, elemento che ci spinge a concentrarci sulle espressioni. È stata una scelta che mirava ad ottenere questo effetto?
Ho pensato che servisse un elemento di ulteriore tensione all’interno del triangolo che si viene a creare, possibile grazie alla presenza di un linguaggio «segreto» tra la protagonista e il suo ex marito. Al di là di ciò, nel 2018 sono stato invitato per un workshop al Tokyo International Deaf Festival, rassegna di cinema dedicata alla sordità, dove ho avuto modo di confrontarmi con molte persone con questa caratteristica. Lì ho capito che il linguaggio dei segni possiede un livello di complessità molto alto oltre al fatto di richiedere movimenti nello spazio, quindi era interessante da un punto di vista cinematografico. Infine, ho notato che pur vivendo in una società dove sono presenti persone con questo e altri tipi di disabilità, non le avevo mai inserite nei miei film e ciò non rispecchiava la realtà.
Dopo lo scoppio della pandemia ha intrapreso un’iniziativa per sostenere le sale cinematografiche in crisi in Giappone. Qual è la situazione attualmente?
A trovarsi in una situazione più critica sono quelli che noi definiamo «mini theater», piccole sale indipendenti. Per cercare di aiutarle io e Ryusuke Hamaguchi – regista di Drive my car, ndr – abbiamo aperto un crowdfunding con cui abbiamo raccolto delle risorse che poi abbiamo diviso tra queste sale in tutto il Giappone. Hanno contribuito circa 30 mila persone e abbiamo raggiunto l’equivalente in yen di quasi due milioni e mezzo di euro. Adesso sembra che il peggio sia passato, ma quello che io ed Hamaguchi stiamo cercando di far capire è che il nostro intervento è stato una tantum, mentre servirebbe un approccio più strutturale. È un problema che precede il Covid, perché in Giappone non vengono date sovvenzioni statali ai cinema, servirebbe una riforma per sostenere le sale indipendenti.