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14 Aprile 2024Fra i collezionisti – un pugno – che con prontezza spirituale sorprendente compresero sul nascere la novità del cubismo, il ceco Vincenc Kramár resta il meno conosciuto, a causa della sua lateralità geografica e linguistica. In occasione della mostra The Essential Cubism (1983, Londra, Tate Gallery), censendo criticamente le figure di quei pionieri a cavallo tra primo e secondo decennio del Novecento, Douglas Cooper lo segnalava come «uno dei più importanti», quantunque di pochi mezzi e affacciatosi ultimo in ordine di tempo, dopo lo svizzero Hermann Rupf, il francese Roger Dutilleul, il tedesco Wilhelm Uhde, gli americani Leo e Gertrude Stein, i russi Sergueï Chtchoukine e Ivan Morozov.
Tra questi che furono i primi clienti di Daniel-Henry Kahnweiler, Kramár era specialmente apprezzato dal mistico mercante del cubismo, per le solide basi culturali di stampo viennese che gli permisero, presto, di organizzare un discorso credibile sul nuovo linguaggio, inteso quale «poesia plastica» e supremo compimento della vita delle forme. Per Kahnweiler si trattava di giustificare al livello intellettuale quel che era ancora recepito come avventura, e il ceco classe 1877, tra i fulminati del Bateau-Lavoir unico storico dell’arte, sembrava il meglio indicato, certo più dei critici fiancheggiatori, Apollinaire, Salmon, il cui ardore giornalistico mal si accordava con la serietà di Daniel-Henry. Tanto più che Kramár si era formato alla Scuola di Vienna, la più reputata dell’epoca, allievo di Alois Riegl, la cui lezione (Kunstwollen) sarà determinante, insieme a quelle di Kant e Fiedler, nelle «meditazioni estetiche» – cubismo, ontologia – di Kahnweiler.
Su Kramár il (raro) volume di riferimento non in lingua ceca data 2002, frutto delle approfondite ricerche per la mostra dedicatagli a Praga nel 2000, che si sarebbe dovuta trasferire a Parigi, musée Picasso, ma fu annullata in extremis: resta il ponderoso Vincenc Kramár. Un théoricien et collectioneur du cubisme à Prague, da leggere insieme alla traduzione francese di Kubismus (idem 2002), il saggio scritto da Kramár nel 1921 a commento di Der Weg zum Kubismus di Kahnweiler, uscito in edizione definitiva l’anno prima ma già apparso nel ’16, dove l’unico in grado di farlo aveva precisato lo svolgimento storico del cubismo delle origini. In lingua ceca, inaccessibile, sulla scena parigina l’importante libro di Kramár dovette essere recepito come qualcosa di marziano, esoterico.
L’armonia delle cose
Forse un che di esoterico esiste in questo tentativo di leggere il cubismo sì nella sua inderogabilità, ma rivolta all’indietro, a realizzare pienamente le potenzialità della grande tradizione. Il tableau analitico di Picasso esprime per Kramár «l’essere armonioso delle cose», «coniuga la suprema gravità a un’impressione di conforto, di oasi di pace». «Gli oggetti più semplici della nostra vita quotidiana, bicchiere, tazza, bottiglia, pipa, coltello…, sono per così dire transustanziati»: se questa accezione lirica del Picasso avanti-guerra deve qualcosa alle idee di Kahnweiler, essa riposa, per Kramár, da una parte nei suoi specifici interessi di studio sette-ottocenteschi, dall’altra in una specie di culto domestico da lui costruito intorno alla collezione.
Bisogna spiegare, appoggiandosi, in particolare, su tre saggi densissimi di area ceca, due di Vojtech Lahoda, l’altro di Olga Uhrová, scritti in occasione della mostra praghese del 2000.
Le frequentazioni parigine di Kramár ruotano intorno al rapporto, subito complice, con Kahnweiler, che già nel corso della sua prima trasferta, autunno 1910, lo presenta a Derain, Braque, Picasso, e lo mette probabilmente al corrente degli scritti di Apollinaire, Jacob, Salmon. I primi acquisti nella galleria di rue Vignon non riguardano Picasso, ma le xilografie taglienti di Derain e Vlaminck. Kramár non è digiuno di arte moderna, si è aperto all’avanguardia ceca, sostanzialmente espressionista, degli Otto: Filla, Kubišta, Beneš, pittori che avranno un peso nella sua collezione, soprattutto il primo, che anzi ne costituirà, accanto a Picasso, l’asse portante; ed è reduce dalla visita, febbraio 1910, della grande mostra praghese, da Manes, sulle ultime tendenze francesi, assente Picasso. È forte, soprattutto, del suo background purovisibilista, che lo ha condotto a studiare a vasto spettro (Gotico, Rinascimento, Barocco), e di un interesse spiccato per il paesaggismo ottocentesco, base dei suoi primi acquisti, nella versione boema di maestri come Manés, Lebeda, Chitussi, Slavícek.
Nulla sappiamo di questo mondo, ma esso indica una precisa nuance nella personalità intellettuale di Kramár, che comporta una funzione originale nel quadro del suo investimento cubista. Lo incantano certi pittori intimisti sette-ottocenteschi dell’area tedesca e mitteleuropea, le piccole scene di genere di Norbert Grund, una specie di Watteau boemo, e, soprattutto, le pulite e rarefatte atmosfere dello stile Biedermeir. Sicché, mentre partecipa, puntando su Picasso, al fronte più avanzato delle arti, indugia sognante al di qua.
Nel suo vissuto di amateur, non si limita a giustapporre due distinte linee di gusto, apparentemente inconciliabili. Trae a sé Picasso, con acquisti mirati della fase negra e, ancor più, di quella analitica, facendone il fulcro di una mistica del focolare, in cui possa figurare quale espressione suprema e risolutiva del mondo di ieri. «I Picasso del 1911-’12 acquistati da Kramár si segnalano, la più parte, per una sorta di intimità, un’atmosfera di serenità» (Lahoda), coopera la predilezione per il genere natura morta e per i piccoli formati: Pernod et cartes, La Côtelette, La Glace. Ma, di più, in vari passi del saggio Kubismus, e altrove, la sua analisi piega a tal punto verso una lettura lirica, da obliterare quasi la carica eversiva del nuovo linguaggio, sicché – scrive – queste «piccole opere…, fra le meraviglie della produzione di Picasso», finiscono per assumere «lo splendore e la purezza della musica di Mozart, il carattere sublime e la cesellata concisione della poesia lirica». Lahoda fa notare come Kramár arriverà a leggere una (stregata) Fillette aux fleures del ceco di primo Ottocento František Tkadlík sotto il segno della «plasticità pura», del «senso del reale», dell’«autenticità affascinante», medesime definizioni che riserva a Picasso.
Praga, via Studenská
Nel novembre 1912 Kramár aveva lasciato la Vienna dei suoi studî per stabilirsi a Praga. 1931: trasportiamoci nell’appartamento di via Studenská, quartiere di Dejvice, con l’ausilio di due fotografie. In una lo studioso, trasognato, tiene fra le mani un piccolo feticcio africano, sullo sfondo la biblioteca, che documenta gli interessi di studio (antichi maestri, Ottocento), e, alle pareti, tre capolavori del Picasso avant-guerre: il celebre autoritratto del 1907 – acquistato, così come il busto di Fernande (1909), da Ambroise Vollard – e, di provenienza Kahnweiler, gli ermetici Femme á la guitare e La Mandoline et le Pernod. Pur sbaraglianti, le tele di Picasso vengono assorbite nell’atmosfera meditativa, ascetica, delle stanze familiari, dove Kramár si difende dal rumore del mondo, che di lì a qualche anno, con l’invasione nazista della Cecoslovacchia, diventerà ancora più rumoroso.
L’altra fotografia mostra un ardente angolo cubista, alla parete principale l’accrochage dei cinque Picasso – nel centro, il grande ovale del 1912 Violon, verres, pipe et ancre – richiama, giusta la lettura di Lahoda, la decorazione di un altare, secondo le indicazioni che Kramár aveva tratto, evidentemente, dallo studio di alcuni retabli medioevali condotto poco tempo avanti. Una forma di spiritualizzazione dell’arte moderna. Non è un unicum, partecipa di una tendenza: Kandinsky; l’interpretazione di Picasso, ascensionale, gotica, tedesca, data da Wilhelm Uhde… Lahoda richiama un’altra parete cubista, molto simile, nell’appartamento berlinese di Alfred Flechtheim, il mercante tedesco intrinseco di Kahnweiler (foto del 1928), e l’impressionante allestimento «sacramentale» realizzato dallo stesso Picasso (Sorgue, estate 1912) con alcuni dei suoi capolavori analitici, e da lui stesso fotografato.
Kramár conserverà sempre, preziosa reliquia, una mela avvolta in carta velina, utilizzata da Picasso per una natura morta: la devozione al dato referenziale non è estranea alla profonda idea di realismo cui si associa per lui, in accordo perfetto con Kahnweiler, il linguaggio cubista. Intende i valori plastici e spaziali «un modo d’espressione dell’anima delle cose e dei loro umori» (Lahoda). Come il mercante filosofo, respingerà l’astrattismo – ignorando il grande connazionale Kupka -, e resterà interdetto dinanzi al Picasso neo-figurativo.
1920, una celebre lettera
Il cubismo si era spinto talmente innanzi nella penetrazione del reale che ogni ritorno… di realtà ne risultava edulcorato, falsificato. Qui cade una celebre lettera, 6 luglio 1920, in cui Kahnweiler, rientrato a Parigi dopo il forzato intermezzo bernese, mette al corrente Kramár dei rivolgimenti post-bellici, soprattutto il «voltafaccia… “naturalista”» di Picasso, che, restato solo durante la guerra, si è fatto irretire da Cocteau, dai Balletti russi, dal «gran mondo».
Kahnweiler deplora, di Picasso, la simultaneità dei due stili, cubista e neoclassico. Cedimento morale, Kramár è d’accordo: tuttavia nel 1922, scrivendo per il catalogo della mostra praghese del malagueño, deve togliersi d’imbarazzo, giungendo ad ammettere, nella sua opera, l’esistenza di una sola corrente, della quale il cubismo sarebbe l’espressione «moderna», la nuova figuratività quella del «classicismo di un tempo». È un convenire verso l’artista che, dal loro primo incontro, sempre lo aveva tenuto nella massima considerazione.
Se con Picasso «l’improbabile diviene possibile», Kramár resta, e resterà, dalla parte del cubismo analitico: una sorta di stendhaliana cristallizzazione, evidente nelle sue stanze praghesi. La rapida evoluzione del gusto irrigidisce il suo credo, fino al dogma. Dal 1919 è direttore del museo nazionale di Praga, l’attuale Národní Galerie. Nel maggio 1923 torna a Parigi: deve acquistare, nella nuova veste, opere dell’École de Paris. Si reca in 29 bis, rue d’Astorg, la nuova galleria di Kahnweiler: ritrova l’amico, ma non i tableaux cubisti ‘di prima’, con i quali vorrebbe arricchire le collezioni di stato. «Ricorderò sempre – riferirà Kahnweiler – il suo “Gehn’S!” stupefatto e deluso» nel sapere che le vecchie riserve della galleria sono state sequestrate e liquidate, misura contro il tedesco, nemico di guerra.
Nei difficili anni venti Kramár collezionista vira decisamente verso il cubismo ceco, le cui vicende lo avevano coinvolto dai giorni della diaspora dei Plastici (prima esposizione gennaio 1912), atto di nascita di un’arte nuova, «totale», senza confronti in Europa, compresi – clamorosi – la mobilia e gli edifici prismatici. Funzionario museale, studioso, egli non può più permettersi di acquistare Picasso, né tanto meno il Picasso analitico: punta su Emil Filla, che dopo l’avvio espressionista, l’esaltato simbolismo cromatico del Lettore di Dostoevskij, si era convertito al cubismo, anch’egli nel fatidico 1910. Filla è forse il più ortodosso fra i continuatori europei del cubismo, e, di Kramár anima gemella, si è qualificato liricamente, assorbendo dagli antichi maestri, gli olandesi del Seicento, scoperti a Rotterdam durante la guerra, come dicono le sue nature morte, sintetiche, sobrie, matericamente delicate, di cui il collezionista inanella una serie ammirevole.
Filla! sensibilità tutt’altra rispetto a Picasso, una «tenerezza» che lo apparenta piuttosto a Braque. Ecco dunque Braque, da Kramár sottostimato nei giorni della folgorazione cubista (in collezione, tre numeri appena e solo due dipinti), chiamato a svolgere negli anni venti, in tandem con Filla, una precisa funzione di fedeltà. Del resto Filla, nel 1914, si era annidato, riporta Apollinaire, nell’hôtel Roma a Montmartre, sedotto da Braque, che lì teneva atelier.
Filla comporta per Kramár un’opzione forte anche rispetto alla dialettica, tumultuosa e affascinante, del cubismo patrio: la raffinata ortodossia, a fronte del parossismo espressionista, tipicamente continentale, che imbastardisce, agli occhi di Kramár, la purezza del dettato, sulla traccia di Bohumil Kubišta, il pittore matematico-esistenziale morto giovane nel ’18, pur presente alle sue pareti con il bislacco capolavoro Pierrot, del 1911. Beneš, Capek, Gutfreund, Procházka, Šíma… la collezione di Kramár fu specchio, con qualche concessione, del suo rigoroso punto di vista plastico-lirico, risolutamente anti-letterario.
I nazisti e le prime api
Durante la Seconda guerra, le opere di Kramár, «degenerate», scamparono alle razzie naziste. Il collezionista fece di tutto per passare inosservato, chi andava in visita lo trovava sprofondato sull’arte dell’Ottocento boemo, «vecchio studioso che, a rileggere il diario di bordo tenuto in questi anni, non sembra percepire del mondo esterno che il tempo che fa, “le prime api nei salici”, “le prime forsizie ed epatiche in fiore”» (Lahoda).
Dopo l’ecatombe e l’arrivo dell’Armata rossa, rifiuta di reintegrarsi direttore del Museo Nazionale. Alla fine del 1945 aderisce al partito comunista. Insisterà – ostinato, inattuale – sul cubismo quale nuovo realismo, cercando di stabilire un ponte con… il vecchio realismo adesso al potere. Ma la sua dimora, sita dal 1936 in via Na Kotlárce, sempre nel quartiere Dejvice, resta aperta ai diversi pellegrini del Moderno in viaggio verso Praga e, soprattutto, ai giovani artisti cechi, che lì scoprono Picasso, Braque, un’intera corrente bandita dalle sale di esposizione. Dal 1960 trenta opere sceltissime di quell’insieme sognato sono il vanto della Národní Galerie.
Nel 1959 cade la visita a Kramár, malato, dell’amico dei tempi eroici Kahnweiler, che nel settembre ’64, dopo la morte, lo ricorda, toccante: «Fu dei nostri a colpo sicuro… Accorreva da Praga, giungeva nella mia piccola galleria, 28, rue Vignon, pieno d’impazienza».