segue dalla primaIl Quinto Anfossi del libro, intellettuale che decide di cavalcare fino in fondo lo “spirito dei tempi”, non è forse un antesignano di Giovanni Toti, giornalista che decide di attraversare la scivolosa “terra di mezzo” tra politica e affari? E il quadro d’insieme, prima letterario poi giudiziario, non riflette allo stesso modo il medesimo “fallimento individuale all’interno di una decadenza collettiva”?
Certo, allora le cifre erano altre, c’erano tariffe fisse da Palermo ad Aosta, il fenomeno era trasversale e strutturale: la maxi-tangente Enimont valeva 90 miliardi di vecchie lire e la provvista All Iberian 150, mentre favori e prebende della “Genova per loro” valgono molto meno. Ma ilmodus operandi, alla fine, è sempre lo stesso.
Tanto più se – come sembrerebbe, stando al testuale di un interrogatorio di Spinelli jr, la cui trascrizione è tuttavia già contestata dai suoi avvocati – il Governatorissimo non batteva cassa solo per finanziare “in chiaro” le sue campagne elettorali, ma chiedeva anche fondi “illeciti”.
Il presidente della Regione si deve dimettere, questo è scontato. E non lo diciamo perché, da giacobini mozzorecchi, lo consideriamo colpevole senza neanche aspettare il processo. Il suo non è (ancora) un problema penale: da persona responsabile delle sue azioni, risponderà nei tribunali della corruzione e dei suoi reati eventuali. Ma è (già) un tema etico-morale: da uomo delle istituzioni e da leader della sua Lista, ha incassato denaro da imprenditori privati in cambio di favori, appalti, concessioni. E tanto basta o dovrebbe bastare, in un Paese che ha scritto in un articolo della Costituzione “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Parlano chiaro, le intercettazioni acquisite dall’inchiesta. La Procura genovese ha potuto effettuarle grazie all’utilizzo del trojan, la microspia innescata nei telefoni cellulari di cui la destra vuole vietare l’utilizzo (e adesso ne capiamo bene il motivo). Noi possiamo ancora leggerle nell’ordinanza di custodia cautelare, prima che la stessa destra ne vieti per sempre la pubblicazione integrale come prevede il pacchetto Nordio (e anche qui ne comprendiamo ancora meglio il movente).
A capotavola siede la Politica, affamata del denaro che non ha. Cioè Toti e il suo cerchio magico, che in qualche modo ha fatto già “sistema”. Sale e scende in continuazione dallo yacht di Spinelli, e ogni volta ripete la stessa domanda: “Ma Aldo ci dà i soldi?”. Poi gli parla direttamente, a cuore e a portafoglio aperto: “Quando ci saranno le elezioni dammi una mano…”. Il suo capo di gabinetto alla Regione, Matteo Cozzani, spiega all’amica deputata Ilaria Cavo il baratto tra i voti nell’urna e i posti di lavoro per gli amici: “Qui è come la mortadella, poca spesa tanta resa…”. Teme per il suo imminente incontro con Arturo e Italo Testa, i gemelli siciliani di stanza a Boltiere per conto dell’Associazione Riesini nel Mondo e, a quanto pare, anche di Cosa Nostra: “O mio dio, i Riesini no… quelli mi squartano”. Con la parlamentare forzista Manuela Gagliardi è ancora più esplicito: “Mi frega solo che un bel giorno non vorrei trovarmi la Direzione Antimafia in ufficio…”.
Dall’altro lato del tavolo ci sono le mosche del Capitale. Gli industriali che di denaro ne hanno tanto, ma ne vogliono sempre di più e per questo foraggiano il Palazzo. Il sindaco Bucci descrive bene la mangiatoia in banchina: gli imprenditori gli ricordano “i maiali a cui davo le ghiande da piccolo”, e l’assalto al porto gli “sembra unaporcilaia”. Su quest’avida comunità dei “suini” comanda Spinelli, il Grande Elemosiniere che ammette “ho dato soldi a tutti, al Pd, alla Paita, a Pannella, a Bonino”. Ma soprattutto a Toti, naturalmente, “le cose elettorali le ho sempre date a lui, abbiamo fatto il Festival della Scienza, il Festival dei Fiori, abbiamo fatto il Palazzo San Lorenzo, abbiamo dato contributi alle chiese…”. Roberto, figlio dell’ex patron del Genoa Calcio, ammette: “Mio padre non si conteneva, a un certo punto abbiamo anche pensato di chiedere un amministratore di sostegno…”.
A questo punto è la notte. I miliardi del Pnrr e del Terzo Valico, della Gronda e del Concenter, del Terminal Rinfuse e dell’isola Palmaria: tutto gestito da leader di partiti in bolletta e da affaristi quasi incapaci di intendere e di volere. Chiamatela come volete: la nuova Questione Morale o il solito Vecchio Malaffare. Qualunque sia la formula, ha ragione da vendere Raffaele Cantone, nell’intervista aRepubblica di domenica scorsa. L’inchiesta genovese smentisce chi, troppo trionfalmente, va affermando che la corruzione è un problema ormai superato. E soprattutto dimostra che il nodo dei costi della politica non l’abbiamo sciolto né con il referendum che ha abolito il finanziamento pubblico, né con la legge Spazzacorrotti varata dai gialloverdi nel 2019. Le risorse drenate attraverso le Fondazioni continuano a fluire in una zona grigia, dove è difficile distinguere il chiaro dal nero e il lecito dall’illecito. Finché ci sarà opacità nel rapporto tra chi esercita il potere politico e chi possiede quello economico, la corruzione la farà sempre da padrona. E andrà sempre peggio, se chi governa sfascerà definitivamente l’ordinamento giuridico, abolendo il reato di abuso d’ufficio e depotenziando quello del traffico d’influenze, mettendo il bavaglio sulle intercettazioni e vietando l’uso del trojan, separando le carriere tra giudici e pm e istituendo un secondo Csm controllato dalle maggioranze.
Serve tutt’altro. Riforme vere della giustizia, nell’interesse esclusivo dei cittadini inermi e non dei colletti bianchi. E poi, a questo punto, reintroduzione formale del finanziamento pubblico e abolizione totale di quello privato. Non ci sono pasti gratis, nella Res publica. E non c’è democrazia, senza i partiti. La lunga stagione dell’antipolitica al comando — in un Paese sopravvissuto a Tangentopoli e poi al berlusconismo — è stata forse inevitabile. L’odio per la Casta, l’uno vale uno, il Parlamento aperto come una scatola di tonno, la cuoca di Lenin seduta sugli scranni di Montecitorio, la foga qualunquista e giustizialista del “rubano tutti, tutti in galera”. In un’Italia stremata dall’inconcludenza dei partiti e dalla supplenza dei tecnici, un lavacro così devastante è stato persino necessario. Gli stessi politici si sono prestati, all’insegna del vecchio motto populista: devo seguirli, sono il loro leader. Ma oggi non si può più fare a meno di recuperare, insieme all’onestà, la dignità e la legittimità della politica. E l’unico modo per farlo — benché ci siano pochi contribuenti disposti a versargli anche solo il 2 per mille dell’Irpef — è sostenerla attraverso la fiscalità generale. Con una legge seria e rigorosa, che magari disciplini una volta per tutte anche il conflitto di interesse, che il Cavaliere di Arcore ha tramandato in tanti lasciti minori ad Angelucci e ai suoi eredi. Sembra impossibile anche solo pensarlo, con l’aria che tira nella coalizione delle tre destre. Ma poi non si lamentino, di fronte alle tante altre Ligurie che verranno. Perché “in questo gioco — come scriveva sessant’anni fa lo stesso Calvino, in quella sua fulminante allegoria della nazione — sono sempre i peggiori che vincono”.